Nella visione di Raymond Aron il cambiamento e il
miglioramento delle condizioni sociali, l’uguaglianza di risorse e di
opportunità, può essere affrontato in modo efficiente soltanto in un quadro di
istituzioni liberali e democratiche e, riguardo l’intervento politico,
esclusivamente da una prassi orientata al riformismo. La convinzione di Aron si
ispira ad una sorta di pragmatismo che riconosce nella realtà sociale e storica
il banco di prova per le teorie, quanto il limite invalicabile per ogni
ideologia. L’”oppio degli intellettuali” sono tutti quei miti della conoscenza
e della vocazione politica che impediscono la comprensione dei fatti,
sociali o economici, e della realtà
storica in quando li racchiudono in schemi che spesso rispondono ad aspirazioni volontaristiche di natura morale,
secolarizzata o religiosa, camuffate, da supposte leggi della storia,
dell’economia o della società.
Raymond Aron aderisce ad una lettura del progresso sociale
in cui le istanze del rinnovamento, proveniente dalla ricerca scientifica e
dalla tecnologia, contribuiscono in modo dialettico alla realizzazione del
progresso economico insieme al miglioramento delle condizioni sociali. Questa
dialettica si presenta con una crescita delle ineguaglianze nei momenti di
espansione economica per poi tornare a livellarsi attraverso l’espansione dei
diritti sociali attraverso la dinamica della cittadinanza attiva che si esprime
nei diritti. La democrazia è il cemento indispensabile per la composizione dei
conflitti che provengono dalle dinamiche dello sviluppo in un rapporto di
equilibri che realizzano la libertà come maggiore disponibilità di risorse
economiche per gli individui e maggiori opportunità di partecipazione alla vita
politica e sociale.
Questa dialettica iscritta nell’atto costituivo della società moderna
non ha bisogno della rivoluzione per risolvere le ingiustizie. Al contrario, le
esigenze di giustizia sociale di fatto possono essere concretamente e
saggiamente perseguite solo attraverso il riformismo. Aron considera le
rivoluzioni e i rivoluzionari come interpreti ci una istanza negativa
volontaristica ed estetizzante «molti intellettuali … passano … dall’ateismo alla rivoluzione, non perché quest’ultima
prometta di riconciliare gli uomini o di risolvere il mistero della Storia, ma
in quanto distrugge un mondo [considerato moralisticamente] mediocre e odioso.
… La parola révolte, come la parola nichilismo … si usa tanto spesso che
si finisce per non sapere più che propriamente significhi.»[1]
In questa concezione Aron accomuna tanto la destra che la sinistra.
La ripugnanza che Aron esprime di fronte ai fenomeni delle rivoluzioni
è radicata nella sua chiara opzione per la pace. Citando Erodoto, Aron sostiene
che nessun uomo è talmente privo di ragione da preferire la guerra alla pace.
Tuttavia, per tutto il novecento, di fronte al culto fascista della violenza e
ad una antropologia che vuole lo stato di guerra come condizione naturale per
l’uomo, la sinistra non ha fatto altro che opporre il mito della rivoluzione
quale rifugio del pensiero utopistico. Un mito imprevedibile quanto misterioso,
crocevia tra l’ideale di una società migliore più equa e libera e la realtà
storica dell’oppressione dell’ingiustizia realizzata nei regimi dell’est
Europa. La sinistra ideologica quindi anziché esprimere ripugnanza, ha rivelato
tutta la sua attrazione per il conflitto e spesso per la violenza in chiave di
utopia rivoluzionaria. Un mito moralista che esalta gli animi fino al giudizio
di tradimento per ogni posizione riformista. Infatti, come sostiene Aron il
laburismo, la “società scandinava senza classi” non hanno mai destato nella
sinistra europea i medesimi entusiasmi che hanno suscitato le cosiddette
rivoluzioni.[2] Il mito della palingenesi rivoluzionaria che vive
oggi in diverse forme di anticapitalismo deve essere totamente esorcizzato
dallo statuto della sinistra riformista.
Il riformismo predilige la libertà reale e diffida dei proclami
che promettono un mondo ideale di piena libertà e realizzazione di sé stessi,
cioè la libertà ideale. «Dove l’espansione economica progredisce, dove
il livello di vita s’è innalzato, perché sacrificare le libertà reali dei
proletari, per quanto parziali siano, ad una liberazione totale che si confonde
stranamente con l’onnipotenza dello Stato?»[3] Aron scrive negli anni sessanta e pensa
alla Francia dell’esistenzialismo sartiano, che mal si concilia con le pretese
scientifiche del marxismo, e tanto meno con la realtà delle società occidentali
sviluppate. Gli intellettuali puri della sinistra francese, dice Aron,
considerano sterile il riformismo e, in quanto spiriti superiori, non hanno
avuto modo di apprezzare quanto realizzato per i proletari dal laburismo
inglese o dal sindacalismo scandinavo e si dimostrano delusi di fronte a quegli
operai che scelgono i vantaggi immediati nel miglioramento delle proprie
condizioni, di vita e di lavoro, piuttosto che i grandiosi progetti a lunga
scadenza. Le contraddizioni della sinistra sartriana sono tutt’oggi presenti in
tante posizioni della sinistra radicale e movimentista in tutta Europa.
Al contrario i nostalgici della libertà ideale trascurano queste
conquiste e le condizioni concrete di una vita migliore, nel miraggio di una
soppressione del lavoro salariato. Di fatto più l’industria moderna si
sviluppa, maggiori diventano le possibilità concrete di liberazione che si
realizzano attraverso un vincolo crescente di responsabilità sociale di tutti
gli attori dello sviluppo. In questo processo «i rivoluzionari che sognano la
liberazione totale non fanno altro che affrettare il ritorno alle anticaglie
del dispotismo»[4] che si
realizza innanzi tutto in una commistione tra potere economico e potere
politico sulla cui indipendenza, invece, è fondato in raggiungimento degli
obiettivi che realizzano la libertà reale. Ciò vale tanto per i radicalismo
rivoluzionario di destra quanto per quello di sinistra. Al centro delle
possibilità di riscatto sociale stanno la democrazia liberale e il progresso
economico consentito dalle conquiste della scienza e della tecnica nella
società aperta. La liberazione reale dell’operaio in Inghilterra e in Svezia è,
per il radicalismo rivoluzionario, tediosa come una “domenica inglese”, dice
Aron, la liberazione ideale è affascinante come un salto nel futuro o come un
avvenimento catastrofico.[5]
Sicuramente il progressivo raggiungimento del benessere materiale e
delle conquiste civili nel campo dei diritti lasciano poco spazio ai
sostenitori della liberazione ideale e ciò consente di avere società politicamente
stabili e relativamente prospere dove sono garantiti insieme alla salute e
all’istruzione anche il benessere e l’opportunità di cambiare la propria
condizione. Per questo è il riformismo la vera bandiera della sinistra.
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