Abbiamo provato a chiedere a Raymond Aron, sociologo ed
analista politico, una valutazione sul panorama politico italiano. Ricordiamo
che Aron è conosciuto come uno dei più eminenti intellettuali espressione del pensiero
liberale del secondo dopoguerra, avversario indefesso di Jean Paul Sarte contro
le cui teorie ha sviluppato una profonda riflessione sulle pretese marxiste
dell’esistenzialismo (e viceversa).
In questa lunga “intervista impossibile”, parlando
della destra continentale ed italiana, lancia precisi messaggi alla sinistra:
sono infatti note le sue simpatie per la sinistra liberale e riformista scandinava
e nord europea.
Che idea si è fatto della destra italiana negli ultimi anni?
Direi che negli ultimi anni attraverso un dibattito politico
culturale di una parte degli eredi della destra storica e l’attività politico
istituzionale della nuova destra italiana dall’altra, si sono delineate modelli
da cui può scaturire in un prossimo futuro un nuovo partito delle destre in
Italia, anche se rimane difficile dire se questo sarà in grado di rappresentare
tutti i rivoli che alimentano l’attuale galassia della destra attuale
Identificherei, anche per motivi di personale simpatia,
innanzitutto una corrente che si richiama ad un radicamento storico-culturale
della destra liberale europea, una corrente che attualmente in Italia, e non solo,
sembra essere largamente minoritaria. La sua identità appare costellata da una
storia del tutto lineare ma si può dire che essa assume fisionomia a partire da
una rottura operata dalla destra storica di matrice post fascista in funzione
di apertura della democrazia e del pluralismo. Democrazia e pluralismo non sono
infatti necessariamente in conflitto con una visione politica e delle
istituzioni di una destra conservatrice. Anzi, tutt’altro, le esperienze
continentali hanno purtroppo oscurato quei valori liberali così preponderanti
invece nella destra anglosassone.
Purtroppo, per decenni sul continente, esportata anche nei
paesi latino americani, la politica della destra ha trovato ispirazione dalle
opzioni più reazionarie, contrapposte alla modernità portate dalle due
rivoluzioni del XVIII secolo: libertà e diritti coniugati con il progresso
economico attraverso lo sviluppo della tecnica.
I fascismi, a differenza del pensiero puramente reazionario
di fine ottocento, hanno fatto proprio il secondo aspetto respingendo quello
relativo ai diritti e alla libertà, e incarnando il pericolo paventato da
Tocquenville nelle democrazie: la dittatura della maggioranza, con risultati di
immane tragicità. Ecco, nella retorica del richiamo alla legittimazione
popolare, questo secondo filone direi che affiora in modo evidente nelle
istanze della destra italiana, quella che appare attualmente maggioritaria.
Una cultura fondamentalmente anarcoide, ribelle e anti
establishment, già appannaggio del partito fascista 1919, un sostanzialmente
rivoluzionario partito che ancora non si era posto il problema del Governo. Una
cultura politica che ha trovato nella dittatura il suo sbocco più naturale.
Questa cultura ribelle mantiene forti radici in certe espressioni della cultura
popolare italiana, come in una certa destra continentale, che per certi versi
presenta aspetti di continuità con la cultura voelkish, i cui elementi trovano
nuova linfa nella cultura trasmessa attraverso i media e i social network e,
per altri aspetti più pittoreschi, in quella che potrebbe essere chiamata
l’ideologia “giallo-verde” di due partiti che hanno coniugato, in chiave
rivoluzionaria ma finalità esclusive di potere, la “paura” con la “rabbia”.
Quest’ultima mozione assorbe alcune interpretazioni delle
correnti elitiste sia italiane che, attraverso canali di cultura economica,
americane che le danno una apparente aura di modernità e consentono di
presentarla come innovativa. Questi elementi vengono espressi e rappresentati a
volte da singoli esponenti o a volte da una evocata cultura manageriale
proveniente dal ramo del marketing più che dall’economia. In ciò gli elementi
di continuità tra i due partiti populisti al Governo in Italia sembrano essere
molto solidi. Ciò che nel Movimento 5 Stelle appare familiare con l’ideologia
della sinistra storica sembra più appartenere ad una riedizione tarda del
pensiero sartriano, moralista e antimoderna, che alla tradizione della sinistra
progressista.
Si potrebbe dire che questi elementi, che meglio si prestano
a forme di rappresentazione più incisive attraverso slogan e gesti simbolici, fungono
da ideologia diffusa della destra italiana. Elementi che, ripeto, vedo come
espressione di continuità con l’ideologia anti modernista del Movimento 5
Stelle come di certa sinistra anti sistema.
Insieme ad essi troviamo un altro motore ideologico, anche
questo non estraneo alle culture totalitarie del secolo scorso, che è quello
del nemico, in particolare il nemico interno, e del complotto dei poteri forti.
Il cinismo nichilista fondato sul popolare mantra “tutti gli altri sono usurpatori
dei nostri diritti”, serve da sfondo per le impalcature della teoria e dei suoi
editti e crea un clima che altera la stessa psicologia dei cittadini
avvolgendoli in una cultura del sospetto, dell’agguato della sfiducia nelle più
elementari delle istituzioni. Si tratta di una ideologia fondata su di una
psicologia negativa, tutt’altro che ottimista.
Come valuta l’evoluzione della destra italiana?
Non sono uno storico quindi preferisco non pronunciarmi sui
motivi e sulle cause storiche che hanno portato all’attuale situazione. È
proprio sull’attualità e sulle analogie con alcuni fenomeni del recente storia
politico istituzionale su cui preferisco soffermarmi.
Penso innanzitutto, dando per certo che la prima prospettiva
si muove su di un terreno storico consolidato, seppure con poco profonde radici
sul suolo continentale, è la prospettiva della composizione di una destra
liberale, quella ad oggi minoritaria, almeno in Italia come in Francia, che
presenta i maggiori aspetti su cui appare utile concentrare la nostra analisi.
Dal punto di vista di un liberale è sempre interessante la
soluzione che si prospetta in riferimento quello che, in alte occasioni, ho
definito come l’ordine sociale e l’ordine politico. La dissociazione di questi
due ordini rappresenta il fondamento delle moderne democrazie e del pluralismo
e si colloca all’interno di quella tradizione che vuole la divisione dei poteri
quale criterio base per il mantenimento delle libertà. Questa dissociazione non
deve essere data per acquisita, infatti più che un dato di fatto rappresenta
una conquista che va mantenuta e riconosciuta. In questo senso si può dire che
le dittature del XX secolo che si sono avute in Europa, da un lato o dall’altro
della cortina, non sono state altro che un tentativo di ridurre uno dei due ordini alla logica dell’altro: in quel caso si
è trattato del tentativo di ridurre tutti gli aspetti della società all’ordine
politico a sua volta sottoposto ad un unico capo. È quanto accade oggi nella
Russia di Putin e nei cosiddetti Paesi di Visegrad. Ed è quanto emerge, per
fortuna in modo sempre estemporaneo e fino ad oggi sempre arginato in modo
opportuno nell’equilibrio dei poteri dello Stato, in Italia rispetto al
cosiddetto “conflitto tra le istituzioni”.
Da dove e nata tale esigenza di riduzione che ha condotto alla formazione di, apparentemente opposte, ideologie che oggi accomunano i due partiti al Governo in Italia?
Si tratta di una visione della società e del potere che, in
Italia, si è espressa in particolare nel pensiero di Gaetano Mosca e di
Vilfredo Pareto, in una sorta di neo-machiavellismo, e può essere considerata
come la più coerente con una visione totalizzante delle relazioni tra ordine
politico e ordine sociale che ha per assioma l’incapacità delle democrazie di
esprimere il governo della cosa pubblica. Pareto considerava inevitabile
l’affermazione dell’oligarchia nella società a tutti i livelli della realtà
sociale nello stesso tempo che in ciascun sottosistema «Dovunque e sempre,
alcuni possiedono sui propri simili un potere sproporzionato al loro numero e,
ordinariamente, ai loro meriti. Un piccolo numero di uomini, a volte uno solo,
prende le decisioni che riguardano il destino di tutti.»[1] Nonostante
la retorica dell’”uno vale uno” è quanto accade in entrambi i partiti al
Governo in Italia, anche in ciò il verbo salviniano non trova differenze
sostanziali con le modalità aziendaliste di decisioni del Movimento.
Nello sforzo di riduzione di un ordine all’altro, di una sfera d’influenza all’altra, è possibile
però aggiungervi anche le visioni neo-giacobine del marxismo-leninismo.
Entrambe le dottrine esprimono, più che l’autonomia
della politica, la supremazia della
politica: utopia platonica che sempre si rinnova. Tuttavia, le dottrine
presentano diverse modalità nella riduzione di un ordine all’altro.
In che senso?
Mentre le due dottrine appaiono analoghe per ciò che
riguarda la riduzione degli ordini attraverso i quali si esprime la vita
economica e politica delle società; presentano, invece, una decisiva differenza
per ciò che riguarda le modalità con cui questa riduzione si realizza. Secondo
la dottrina marxista i problemi della società non si separano da quelli dello
Stato, e la lotta di classe è allo stesso tempo economica e politica: la classe
che possiede i mezzi di produzione detiene di fatto anche il potere, è di fatto
questo elemento si coglie nella mania statalista e anti impresa dei 5 Stelle,
forse è proprio in questo elemento che a sinistra vi sono fasce sociali o
intellettuali che sentono come familiare il richiamo del Movimento.
Per i neo-machiavelliani, invece, ciò che è centrale è il
potere sulle masse detenuto da alcuni soggetti come la “classe politica” (Mosca)
o la “élite” (Pareto).[2]
Questa centralità del potere differenzia i machiavelliani sia dalla prospettiva
marxista che da quella democratica che vedono nell’autogoverno la soluzione
storica del problema del potere, in sostanza essi «oppongono una duplice
permanenza.... quella dei capi in qualsiasi attività collettiva e quella del potere
politico in qualsiasi regime... alla duplice illusione dell’autogoverno e di
una società senza Stato».[3]
A proposito esiste una gran confusione sulle pagine dei quotidiani tra questi
concetti che vengono continuamente sovrapposti con quelli di “casta” o, al
contrario, di “competenza”, trascurando il fatto che la capacità politica non
richiede competenze tecniche specifiche.
Si tratterebbe di una sorta di
riduzionismo al rovescio: oggi il riduzionismo è considerato appannaggio di
alcune teorie relative alla conoscenza scientifica, mentre qui, al contrario,
si riduce il “fatto” all’“idea”!
Proprio così. Bisogna dire che società industriale crea di
per sé una separazione tra gli ordini e i poteri, ciò si realizza come
pluralità delle categorie dirigenti e, innanzi tutto, come separazione di
funzione e di fatto tra uomini che dirigono le amministrazioni pubbliche e
uomini che dirigono le imprese private in modo tale che anche la politica
diventi una realtà e un potere che si pone accanto agli altri in modo olistico
ma non gerarchico. L’originalità della società industriale dipende da questo
aspetto pluralistico e di differenziazione delle gerarchie e non dalla
persistenza e dalla prevaricazione della politica. È impossibile ovviare al fatto oligarchico come è impossibile che
vi sia una pura amministrazione delle cose che sostituisca il governo delle
persone secondo il quale vi siano sempre alcuni
che prendano decisioni in nome di
tutti. Ma non si tratta di scegliere tra regimi e ideologie alle quali
affidare il fatto oligarchico; si tratta piuttosto di stabilire quali siano le
sue forme e le sue manifestazioni in una società che comporta, di fatto, la
dissociazione dei poteri e le categorie e una evoluzione che è il risultato di
un dialogo che rispetti il pluralismo tra di essi. È sulla base di questa
pluralità, del rispetto di essa, che è possibile valutare oggettivamente i diversi regimi.[4]
Esiste, tra i sistemi attuali, un modello cui fare riferimento?
Nei fatti bisogna dire che nessun regime esistente assicura
a tutti i governati la partecipazione al potere e al governo della società, e
la coscienza di una tale partecipazione è un fatto molto raro; e ciò nonostante
vi sia la possibilità per gli individui di scegliere liberamente i propri
rappresentanti. In una tale situazione è facile ritenere che il pluralismo,
così come la lotta politica tra partiti, sia una pura finzione che non ha
alcuna influenza sulle élite al potere. Su questa supposizione si fonda
l’argomento cinico del potere dei neo-machiavellici, ma anche quello marxista-leninista
che considera pura finzione formale le regole della democrazia: in entrambi i
casi si tende a scoprire sempre la persistenza di una classe dirigente dietro
il velo della democrazia. «Non è facile, confutare questo genere di polemiche,
perché esse oscillano tra la banalità e il paradosso, mettono in campo fatti
giusti e ne traggono conclusioni false»[5],
una per tutte le teorie del complotto atte a discreditare le istituzioni
democraiche.
Quindi non c’è via d’uscita?
Non proprio, concomitante con gli aspetti formali della
procedura democratica esiste un fondamentale aspetto di equilibrio e
rigenerazione sociale dei meccanismi delle democrazie. La democrazia non è
indifferente rispetto ai modelli sociali su cui si applica e sarebbe riduttivo
considerane soltanto la forma in senso giuridico politico. Bisogna innanzitutto
dire che la dissociazione dei poteri e degli ordini non si riduce ad una
finzione e non vi è ma una netta sovrapposizione nelle vedute e nelle scelte
dei diversi ordini; ed essi non sono posti in modo propriamente gerarchico
rispetto all’esercizio del potere. Infatti, tra i diversi ordini dei sindacati,
dei dirigenti delle industrie, dei grandi funzionari, dei giornalisti, dei
parlamentari ecc., ciò che in effetti si realizza non è un rapporto di
subordinazione, ma è piuttosto un continuo dialogo ed una continua contestazione.
La procedura elettorale espone il vincitore di un giorno
all’incostanza della fortuna e lascia ai vinti la possibilità di una rivincita.
Attraverso i sindacati, le università, l’esercito, i laboratori, numerosi
individui s’innalzano a questa dimensione di dirigenti nella quale non sono
nati.[6]
Ed è in contrasto con questo ricambio e rimescolamento delle
cariche e degli ordini che sia la lettura della storia come lotta di classe,
che quella che vede in essa soltanto una lotta per il potere sui molti, non
fanno altro che attribuire alla storia quella coerenza che la storia, nei
fatti, non ha e non ha mai avuto. Tutte le letture della storia guidate su di
una filosofia della storia non fanno altro che attribuire ad essa una coerenza
ed un valore teleologico fondato su di un unico principio fondatore. Il punto è
proprio quindi di scardinare questa presunta immagine di coerenza nella sua
declinazione politica, sociale o istituzionale a vantaggio di una visione
aperta e più coerente, questa volta sì, con il dinamismo sociale.
Penso che il livello conoscitivo non possa essere, in casi
come questo, disgiunto dal momento che riguarda la valutazione dei fatti.
L’esistenza di una società divisa per ordini e per poteri è, come voleva
Montesquieu, opportunamente insuperabile in quanto è su di questa separazione
che si regge la libertà dei moderni e il pluralismo.
Infatti, l’ordine delle società industriali ha davanti due
alternative possibili, l’una è quella che abbiamo visto nell’esperienza
sovietica in cui un partito unico politicizza l’intera società, e ciò vale per
tutti i modelli che si avviano alla modernizzazione a discapito della libertà e
del pluralismo. L’altra via è quella delle società occidentali «in cui i
superiori delle molteplici gerarchie perseguono un dialogo permanente e in cui
il sottosistema politico tende a una relativa autonomia in rapporto agli altri
sistemi.»[7]
Oggi l’esperienza sovietica di industrializzazione ha mostrato tutti i suoi
limiti, una alternativa che, in chiave diversa, ispirata a forme di
fondamentalismo religioso, sembra ancora guidare le scelte di quei paesi
dell’Estremo Oriente che hanno scelto la via della modernità sulla base di un
rigetto per la democrazia e il pluralismo.
È proprio così, se riusciamo a valutare con correttezza
riusciremo probabilmente ad formulare , e poi a sostenere, delle posizioni che
sono coerenti con la dialettica democratica e con la dialettica della modernità
che si esprimono, innanzitutto, attraverso il rigetto delle ideologie
totalitarie o fondamentaliste. Infatti, l’industrializzazione e la
modernizzazione della società trovano nella democrazia e nella tendenza
egualitaria, la possibilità per tutti di elevarsi socialmente, una tendenza che
non si trova in contraddizione con la “ferrea legge” del fatto oligarchico né
con l’ereditarietà che privilegia la posizione di partenza. Il meccanismo
essenziale di questo tipo di società sta nell’influenza che l’uomo comune può esercitare sui gruppi
dirigenti attraverso l’esercizio del voto garantito come libertà di
espressione. Certamente questa influenza non è sempre assicurata.
Il “fatto oligarchico” è inevitabile ma bisogna evitare di
attribuirgli un valore ideologico o farne una chiave di lettura della storia e
della società. Esso, privato di queste connotazioni, si presenta come una pura
distinzione di ruoli; una distinzione che è inevitabile nella società moderna
ma che non ha il significato della distinzione di classe, o delle caste
ermeticamente chiuse. «Ciascuno degli innumerevoli ruoli sociali implicati
dalla società moderna comporta gradi di eccellenza. D’altra parte, molti di
questi ruoli implicano il potere dell’uomo sull’uomo.»[8]
Questo potere, però viene mitigato e reso precario e, addirittura funzionale al
benessere generale, dalla realtà della dissociazione democratica e delle
categorie dirigenti.
Si tratta di una soluzione che
assomiglia tanto ad una hegeliana presa di consapevolezza che vuole che ciò che
è reale sia anche razionale, attraverso il quale si giustifica la società così
com’è.
Pare ovvio che, per quanto ne sappiamo oggi, è difficile
sfuggire dal destino della società nata dalla Rivoluzione industriale e dalla
Rivoluzione francese, esiste soltanto una maggiore o minore oscillazione mentre
esperienze alternative, a partire da quella sovietica, non sono altro che
tentativi di pianificazione di questo medesimo destino. Invece, il problema è
oggi di stabilire quali sono i limiti dell’antinomia tra dissociazione
pluralista e unificazione ideologica e non dal punto di vista politico, ma da
quello che riguarda l’infrastruttura dei regimi delle società industriali.
Si tratta di definire un quadro chiaro per una antinomia
immanente alla stessa modernità, che è, in un certo senso, insuperabile, poiché
essa è allo stesso tempo frutto e prodotto del progresso scientifico che in
quanto tale condanna le società moderna ad una perenne instabilità gestibile in
modo coerente soltanto attraverso il pluralismo e la democrazia. In realtà i
regimi a partito unico, come le ideologie moniste fondate sul culto della
personalità, non rappresentano altro che il tentativo di fissare
definitivamente questa antinomia superando attraverso un forzato e rovinoso
irrigidimento quello che appare come un problema di instabilità a cui sono
condannate le società industriali e moderne.
La società sovietica ha maturato al suo interno più di una
delle contraddizioni della modernità. Infatti non era tanto stata ispirata da un principio di
equità e di uguaglianza, quanto da una certa idea del progresso di tipo
ottocentesco che vedeva nella democrazia e nei parlamenti un ostacolo, a gli si
contrapponevano una specie di mitizzazione positivista della scienza e della
tecnica come “liberazione di tutte le forze produttive” presenti nella società
e quindi subordinazione di ogni istanza sociale a questa ideale interpretazione
della storia e deterministica previsione dell’avvenire. Un ideale che, portato
alle sue estreme conseguenze, riproduce il sogno, o l’incubo, tecnocratico: un
progetto implicito nello schema positivista e dal quale non è esente nessuna
società di tipo industriale; un progetto stimolante soltanto fin quando rimane
al livello di un polo dialettico all’interno della complessità sociale e della
storia. Queste contraddizioni possono essere governate attraverso la loro
opportuna conoscenza ma non oltre la dialettica democratica.
Si è sostenuto che la destra berlusconiana sarebbe una
destra pragmatica attenta al raggiungimento di alcuni obiettivi e priva di una
vera ideologia. Ciò può essere considerato vero solo in parte. Infatti, sebbene
sia mancato un coerente piano teorico o ideologico espresso in modo
intenzionale e consapevole dal punto di vista della fenomenologia politica, le
decisioni e il comportamento complessivo sviluppato attraverso le azioni di
propaganda non sono prive di una connotazione politico ideologica. Ovviamente
questa connotazione non esprime una volontà o un programma di realizzazione di
un modello sociale coerente con la matrice di tale ideologie, anzi proprio su
questo aspetto si potrebbe dire che il berlusconismo esprimeva un progetto
privo di vere finalità in quanto, in evidente contrasto con le promesse di
cambiamento, punta a mantenere il modello socio economico esistente sul quale,
per altro basa il suo consenso.
Elementi di tale teoria politica si possono individuare nell’attuale
evoluzione populista che, rispetto alla dialettica democratica non si può dire
che presenti aspetti di contrapposizione tra le due anime del cosiddetto
Governo “giallo-verde”. In fondo, siamo ancora in presenza di una ideologia del
“fare” che esalta l’azione rispetto alle procedure della scelta e l’incompetenza
assunta a garanzia di autenticità. È una ideologia unica che rende omologhe la destra
leghista con l’anti modernismo del Movimento 5 Stelle. In tal senso quando i
leader dei due partiti al Governo dichiarano di avere superato la distinzione
destra-sinistra non hanno torto: infatti è proprio questa la caratteristica del
populismo analoga alla fase movimentista del fascismo il cui richiamo alla
legittimazione della volontà popolare è un elemento centrale come per altro lo
è stato nelle dittature dell’est Europa. Il populismo appare con una connotazione
politica unica che è distante dal “decisionismo”, e dal “fare” pragmatico di
tipo anglosassone che affonda le sue radici nella complessità della dialettica
democratica della modernità e della democrazia. Ricordiamo che la civiltà
politica di tipo anglosassone non ha mai conosciuto il fenomeno delle dittature
in quanto ha saputo mantenere salda, nei secoli, la barra della libertà.
Appare evidente tuttavia che l’aspetto centrale del modello
di comunicazione scelto da questa destra populista (in questa definizione non
ritengo di dover fare distinzioni tra i due partiti al Governo in Italia) si
colloca in una forma di semplificazione della politica che viene ridotta al suo
aspetto propagandistico e di mantenimento del potere, o sarebbe meglio parlare
di quote di mercato. Si tratta di una ideologia che riduce la politica al
“mercato politico” a utilizza un programma realizzato in funzione di un
prevalente modello di comunicazione propagandistica attraverso una
semplificazione dei messaggi, coerente con il marketing pubblicitario, e
attraverso una riduzione dei significati a due semplici parametri che sono
quelli della coppia amico/nemico. Una necessità, questa, imposta dalla
semplificazione del linguaggio. Tuttavia, tale operazione, che comporta delle
conseguenze controllate nel campo della pubblicità commerciale, nel caso della
politica contribuisce a dare una forte connotazione ai messaggi e al clima
socioculturale tale da dare giustificazione e fondamento alle teorie sulla
politica di Karl Schmitt.
Oltre a questi aspetti un nucleo politico sociale di tale
destra è presente e risiede in quegli aspetti di cui abbiamo parlato sopra a
proposito del riduzionismo e del machiavellismo: come negli altri casi si
tratta di una visione ideologica che sclerotizza e mortifica la dialettica
della modernità e della democrazia.
Quale analogia trova tra il pensiero di Karl
Schmitt e l’ideologia populista che ha animato il dibattito politico in Italia
fin dagli anni novanta?
Bisogna premettere che ci si trova di fronte a
fenomeni che fanno uso di certe categorie schmttiane all’interno di un fenomeno
di semplificazione dei messaggi politici utile alla comunicazione attraverso
gli strumenti tradizionali del marketing oggi fattosi sempre più mirato e
individualizzato attraverso l’uso dei social. Il messaggio si rivolge agli
istinti più elementari del consumatore utente di politica pertanto il discorso
politico si semplifica e diviene un elemento utile ad attrarre l’attenzione promuovendo
meccanismi di identificazione e scelte elementari fondate sul binomio
antipatia/simpatia, amico/nemico, onesta/disonestà, ecc. fino alla semplicità
del messaggio razzista che identifica straniero con usurpatore o delinquente.
In questa sorta di arena vince chi è più bravo a delegittimare e rende odioso
l’avversario e la sua appartenenza politica evitando di intervenire nel merito
delle questioni.
In questo paradigma emerge sullo sfondo un panorama
politico di tipo schmitiano che vede pessimisticamente in modo negativo la
natura umana e considera la politica come una risposta utile a tenere a bada i
pericolosi istinti dell’uomo. In un quadro del genere l’inimicizia e la lotta
hobbesiana tra individui diventa l’elemento fondativo di ogni agire politico.
Il politico attraverso i suoi messaggi mette in scena l’antagonismo più
estremo. Nemico politico è l’altro che, in certi contesti può essere
anche lo straniero. L’inimicizia e il conflitto sono la guida con cui si tratta
con l’altro. Questo tipo di messaggio viene continuamente ripetuto al fine di
screditare l’avversario agli occhi del pubblico, per delegittimare le sue
opinioni. È tipico che durante i dibattiti pubblici non ci si premura a fornire
argomenti convincenti nel merito dei problemi, ma si punta a minare la
credibilità personale dell’interlocutore, ciò che colpisce ancora è la mancanza
di considerazione per il proprio stesso ruolo e la responsabilità politica o
istituzionale. Un metodo essenzialmente violento che potrebbe aprire la porta
ad ogni tipo di gesto.
L’informazione viene ridotta, in questo schema, alla
propaganda dei regimi del secolo scorso. Il clima più tipico è quello del
nemico interno ed esterno, oggi gli immigrati, che giustifica un clima di
guerra civile perenne amplificato dai social network dove ognuno può dare sfogo
alla propria rabbia come accadeva al tempo delle lapidazioni pubbliche.
Dove potrebbe condurre la creazione di un tale clima? È senza
ombra di dubbia da auspicare che a questa destra populista si possa contrapporre
oggi in Italia una destra di tipo istituzionale e più tesa a radicarsi nelle
tradizioni e nelle istituzioni liberali rendendosi affine al gollismo, questa
destra potrebbe ereditare le spoglie di una destra che, come l’apprendista
stregone, appare tesa ad evocare forze che un giorno potrebbe non essere più in
grado di controllare.
Esistono ancora margini
per la sinistra?
A fronte di un quadro così compromesso, la sinistra italiana,
ma direi tutta la sinistra europea, evitando pericolosi ripiegamenti nostalgici
che fanno da pendant al populismo, deve
sicuramente fare ogni sforzo per rendere compiuto il passaggio al riformismo e
fare proprie le istanze del liberalismo politico su cui si fondano le
democrazie e il moderno stato di diritto. È fondamentale che la sinistra acquisisca in modo irreversibile l'idea che la democrazia e le istanze della società liberali non sono in
contraddizione con la giustizia sociale, tutt’altro! È proprio su questo
equilibrio che si genera e si rinnova la democrazia! Certamente esistono oggi
nella sinistra diverse e contrastanti posizioni, ma penso che su quei valori
sia possibile trovare una convergenza o, come si usa dire oggi, un’intersezione
su cui fondare il consenso; queste intersezioni potrebbero oggi essere la base
di una unica forma costitutiva di una sinistra liberale in forma federata tra
diverse opzioni concordi sui valori fondamentali che, come sosteneva Platone,
sono la base di ogni discussione e della dialettica.
[1] Op. cit. p. 63. [Sarebbe interessante
confrontare questa „interpretazione“ del pensiero di Machiavelli con quella di
Weber, così importante per la formazione del pensiero di Aron; e poi con quella
di Gramsci, per cercare dei riscontri nel pensiero aroniano in un contemporaneo
dei due sociologi sopra citati.]
[2] Op. cit. p. 63.
[3] Op. cit. p. 63. Questa
operazione di riduzione e di assolutizzazione del problema del potere si
presenta come maggiormente realista. Ma in realtà non è che il frutto di una
forma di scetticismo verso il pensiero razionale che si pone la soluzione del
problema del potere nella società moderna, uno scetticismo ispirato ad un
empirismo iper realista che non concede nulla all’astrazione. Sarebbe
interessante fare un confronto con quelle espressioni del pensiero anarchico
che postulano l’unicità dell’individuo quale premessa dell’abolizione dello
Stato: le affinità sono probabilmente maggiori di quanto il richiamo al valore
assoluto della libertà non lasci intendere.
[4] «L’originalità
delle società industriali non dipende dalla persistenza della politica, ma
della differenziazione delle gerarchie. Gli stessi uomini nelle società
occidentali, non dirigono le amministrazioni pubbliche e le imprese private; la
politica diventa un mestiere più o meno riservato a professionisti. Scienziati,
artisti, scrittori, professori, tutti battezzati intellettuali, non si
sottomettono nella loro propria attività che alla sola autorità dei loro pari.
I segretari dei sindacati operai non obbediscono ai capi d’impresa, i preti non
comandano né obbediscono agli scienziati o ai governanti. In altre parole,
l’ordine apparentemente caratteristico delle società industriali comporta la
dissociazione dei poteri: potere temporale diviso tra i direttori d’impresa, il
personale politico, i leader, i capi dell’esercito; potere spirituale diviso
tra i teologi, gli intellettuali e gli ideologi. La pluralità delle categorie
dirigenti costituisce il primo dato, pluralità che permette confronti oggettivi
tra i regimi.» Op. cit. p. 65.
[5] Op. cit. p. 68.
[6] Op. cit. p. 69.
[7]
Op. cit. p. 71.
[8] Op. cit. p. 71.