mercoledì 19 settembre 2018

Quale destra (e quale sinistra)? Intervista im-possibile a Raymond Aron

Abbiamo provato a chiedere a Raymond Aron, sociologo ed analista politico, una valutazione sul panorama politico italiano. Ricordiamo che Aron è conosciuto come uno dei più eminenti intellettuali espressione del pensiero liberale del secondo dopoguerra, avversario indefesso di Jean Paul Sarte contro le cui teorie ha sviluppato una profonda riflessione sulle pretese marxiste dell’esistenzialismo (e viceversa).
In questa lunga “intervista impossibile”, parlando della destra continentale ed italiana, lancia precisi messaggi alla sinistra: sono infatti note le sue simpatie per la sinistra liberale e riformista scandinava e nord europea.


Che idea si è fatto della destra italiana negli ultimi anni?


Direi che negli ultimi anni attraverso un dibattito politico culturale di una parte degli eredi della destra storica e l’attività politico istituzionale della nuova destra italiana dall’altra, si sono delineate modelli da cui può scaturire in un prossimo futuro un nuovo partito delle destre in Italia, anche se rimane difficile dire se questo sarà in grado di rappresentare tutti i rivoli che alimentano l’attuale galassia della destra attuale

Identificherei, anche per motivi di personale simpatia, innanzitutto una corrente che si richiama ad un radicamento storico-culturale della destra liberale europea, una corrente che attualmente in Italia, e non solo, sembra essere largamente minoritaria. La sua identità appare costellata da una storia del tutto lineare ma si può dire che essa assume fisionomia a partire da una rottura operata dalla destra storica di matrice post fascista in funzione di apertura della democrazia e del pluralismo. Democrazia e pluralismo non sono infatti necessariamente in conflitto con una visione politica e delle istituzioni di una destra conservatrice. Anzi, tutt’altro, le esperienze continentali hanno purtroppo oscurato quei valori liberali così preponderanti invece nella destra anglosassone.

Purtroppo, per decenni sul continente, esportata anche nei paesi latino americani, la politica della destra ha trovato ispirazione dalle opzioni più reazionarie, contrapposte alla modernità portate dalle due rivoluzioni del XVIII secolo: libertà e diritti coniugati con il progresso economico attraverso lo sviluppo della tecnica.

I fascismi, a differenza del pensiero puramente reazionario di fine ottocento, hanno fatto proprio il secondo aspetto respingendo quello relativo ai diritti e alla libertà, e incarnando il pericolo paventato da Tocquenville nelle democrazie: la dittatura della maggioranza, con risultati di immane tragicità. Ecco, nella retorica del richiamo alla legittimazione popolare, questo secondo filone direi che affiora in modo evidente nelle istanze della destra italiana, quella che appare attualmente maggioritaria.

Una cultura fondamentalmente anarcoide, ribelle e anti establishment, già appannaggio del partito fascista 1919, un sostanzialmente rivoluzionario partito che ancora non si era posto il problema del Governo. Una cultura politica che ha trovato nella dittatura il suo sbocco più naturale. Questa cultura ribelle mantiene forti radici in certe espressioni della cultura popolare italiana, come in una certa destra continentale, che per certi versi presenta aspetti di continuità con la cultura voelkish, i cui elementi trovano nuova linfa nella cultura trasmessa attraverso i media e i social network e, per altri aspetti più pittoreschi, in quella che potrebbe essere chiamata l’ideologia “giallo-verde” di due partiti che hanno coniugato, in chiave rivoluzionaria ma finalità esclusive di potere, la “paura” con la “rabbia”.

Quest’ultima mozione assorbe alcune interpretazioni delle correnti elitiste sia italiane che, attraverso canali di cultura economica, americane che le danno una apparente aura di modernità e consentono di presentarla come innovativa. Questi elementi vengono espressi e rappresentati a volte da singoli esponenti o a volte da una evocata cultura manageriale proveniente dal ramo del marketing più che dall’economia. In ciò gli elementi di continuità tra i due partiti populisti al Governo in Italia sembrano essere molto solidi. Ciò che nel Movimento 5 Stelle appare familiare con l’ideologia della sinistra storica sembra più appartenere ad una riedizione tarda del pensiero sartriano, moralista e antimoderna, che alla tradizione della sinistra progressista.

Si potrebbe dire che questi elementi, che meglio si prestano a forme di rappresentazione più incisive attraverso slogan e gesti simbolici, fungono da ideologia diffusa della destra italiana. Elementi che, ripeto, vedo come espressione di continuità con l’ideologia anti modernista del Movimento 5 Stelle come di certa sinistra anti sistema.

Insieme ad essi troviamo un altro motore ideologico, anche questo non estraneo alle culture totalitarie del secolo scorso, che è quello del nemico, in particolare il nemico interno, e del complotto dei poteri forti. Il cinismo nichilista fondato sul popolare mantra “tutti gli altri sono usurpatori dei nostri diritti”, serve da sfondo per le impalcature della teoria e dei suoi editti e crea un clima che altera la stessa psicologia dei cittadini avvolgendoli in una cultura del sospetto, dell’agguato della sfiducia nelle più elementari delle istituzioni. Si tratta di una ideologia fondata su di una psicologia negativa, tutt’altro che ottimista.


Come valuta l’evoluzione della destra italiana?


Non sono uno storico quindi preferisco non pronunciarmi sui motivi e sulle cause storiche che hanno portato all’attuale situazione. È proprio sull’attualità e sulle analogie con alcuni fenomeni del recente storia politico istituzionale su cui preferisco soffermarmi.

Penso innanzitutto, dando per certo che la prima prospettiva si muove su di un terreno storico consolidato, seppure con poco profonde radici sul suolo continentale, è la prospettiva della composizione di una destra liberale, quella ad oggi minoritaria, almeno in Italia come in Francia, che presenta i maggiori aspetti su cui appare utile concentrare la nostra analisi.

Dal punto di vista di un liberale è sempre interessante la soluzione che si prospetta in riferimento quello che, in alte occasioni, ho definito come l’ordine sociale e l’ordine politico. La dissociazione di questi due ordini rappresenta il fondamento delle moderne democrazie e del pluralismo e si colloca all’interno di quella tradizione che vuole la divisione dei poteri quale criterio base per il mantenimento delle libertà. Questa dissociazione non deve essere data per acquisita, infatti più che un dato di fatto rappresenta una conquista che va mantenuta e riconosciuta. In questo senso si può dire che le dittature del XX secolo che si sono avute in Europa, da un lato o dall’altro della cortina, non sono state altro che un tentativo di ridurre uno dei due ordini alla logica dell’altro: in quel caso si è trattato del tentativo di ridurre tutti gli aspetti della società all’ordine politico a sua volta sottoposto ad un unico capo. È quanto accade oggi nella Russia di Putin e nei cosiddetti Paesi di Visegrad. Ed è quanto emerge, per fortuna in modo sempre estemporaneo e fino ad oggi sempre arginato in modo opportuno nell’equilibrio dei poteri dello Stato, in Italia rispetto al cosiddetto “conflitto tra le istituzioni”.


Da dove e nata tale esigenza di riduzione che ha condotto alla formazione di, apparentemente opposte, ideologie che oggi accomunano i due partiti al Governo in Italia?


Si tratta di una visione della società e del potere che, in Italia, si è espressa in particolare nel pensiero di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto, in una sorta di neo-machiavellismo, e può essere considerata come la più coerente con una visione totalizzante delle relazioni tra ordine politico e ordine sociale che ha per assioma l’incapacità delle democrazie di esprimere il governo della cosa pubblica. Pareto considerava inevitabile l’affermazione dell’oligarchia nella società a tutti i livelli della realtà sociale nello stesso tempo che in ciascun sottosistema «Dovunque e sempre, alcuni possiedono sui propri simili un potere sproporzionato al loro numero e, ordinariamente, ai loro meriti. Un piccolo numero di uomini, a volte uno solo, prende le decisioni che riguardano il destino di tutti.»[1] Nonostante la retorica dell’”uno vale uno” è quanto accade in entrambi i partiti al Governo in Italia, anche in ciò il verbo salviniano non trova differenze sostanziali con le modalità aziendaliste di decisioni del Movimento.

Nello sforzo di riduzione di un ordine all’altro, di una sfera d’influenza all’altra, è possibile però aggiungervi anche le visioni neo-giacobine del marxismo-leninismo. Entrambe le dottrine esprimono, più che l’autonomia della politica, la supremazia della politica: utopia platonica che sempre si rinnova. Tuttavia, le dottrine presentano diverse modalità nella riduzione di un ordine all’altro.


In che senso?


Mentre le due dottrine appaiono analoghe per ciò che riguarda la riduzione degli ordini attraverso i quali si esprime la vita economica e politica delle società; presentano, invece, una decisiva differenza per ciò che riguarda le modalità con cui questa riduzione si realizza. Secondo la dottrina marxista i problemi della società non si separano da quelli dello Stato, e la lotta di classe è allo stesso tempo economica e politica: la classe che possiede i mezzi di produzione detiene di fatto anche il potere, è di fatto questo elemento si coglie nella mania statalista e anti impresa dei 5 Stelle, forse è proprio in questo elemento che a sinistra vi sono fasce sociali o intellettuali che sentono come familiare il richiamo del Movimento.

Per i neo-machiavelliani, invece, ciò che è centrale è il potere sulle masse detenuto da alcuni soggetti come la “classe politica” (Mosca) o la “élite” (Pareto).[2] Questa centralità del potere differenzia i machiavelliani sia dalla prospettiva marxista che da quella democratica che vedono nell’autogoverno la soluzione storica del problema del potere, in sostanza essi «oppongono una duplice permanenza.... quella dei capi in qualsiasi attività collettiva e quella del potere politico in qualsiasi regime... alla duplice illusione dell’autogoverno e di una società senza Stato».[3] A proposito esiste una gran confusione sulle pagine dei quotidiani tra questi concetti che vengono continuamente sovrapposti con quelli di “casta” o, al contrario, di “competenza”, trascurando il fatto che la capacità politica non richiede competenze tecniche specifiche.


Si tratterebbe di una sorta di riduzionismo al rovescio: oggi il riduzionismo è considerato appannaggio di alcune teorie relative alla conoscenza scientifica, mentre qui, al contrario, si riduce il “fatto” all’“idea”!

Proprio così. Bisogna dire che società industriale crea di per sé una separazione tra gli ordini e i poteri, ciò si realizza come pluralità delle categorie dirigenti e, innanzi tutto, come separazione di funzione e di fatto tra uomini che dirigono le amministrazioni pubbliche e uomini che dirigono le imprese private in modo tale che anche la politica diventi una realtà e un potere che si pone accanto agli altri in modo olistico ma non gerarchico. L’originalità della società industriale dipende da questo aspetto pluralistico e di differenziazione delle gerarchie e non dalla persistenza e dalla prevaricazione della politica. È impossibile ovviare al fatto oligarchico come è impossibile che vi sia una pura amministrazione delle cose che sostituisca il governo delle persone secondo il quale vi siano sempre alcuni che prendano decisioni in nome di tutti. Ma non si tratta di scegliere tra regimi e ideologie alle quali affidare il fatto oligarchico; si tratta piuttosto di stabilire quali siano le sue forme e le sue manifestazioni in una società che comporta, di fatto, la dissociazione dei poteri e le categorie e una evoluzione che è il risultato di un dialogo che rispetti il pluralismo tra di essi. È sulla base di questa pluralità, del rispetto di essa, che è possibile valutare oggettivamente i diversi regimi.[4]


Esiste, tra i sistemi attuali, un modello cui fare riferimento?


Nei fatti bisogna dire che nessun regime esistente assicura a tutti i governati la partecipazione al potere e al governo della società, e la coscienza di una tale partecipazione è un fatto molto raro; e ciò nonostante vi sia la possibilità per gli individui di scegliere liberamente i propri rappresentanti. In una tale situazione è facile ritenere che il pluralismo, così come la lotta politica tra partiti, sia una pura finzione che non ha alcuna influenza sulle élite al potere. Su questa supposizione si fonda l’argomento cinico del potere dei neo-machiavellici, ma anche quello marxista-leninista che considera pura finzione formale le regole della democrazia: in entrambi i casi si tende a scoprire sempre la persistenza di una classe dirigente dietro il velo della democrazia. «Non è facile, confutare questo genere di polemiche, perché esse oscillano tra la banalità e il paradosso, mettono in campo fatti giusti e ne traggono conclusioni false»[5], una per tutte le teorie del complotto atte a discreditare le istituzioni democraiche.


Quindi non c’è via d’uscita?


Non proprio, concomitante con gli aspetti formali della procedura democratica esiste un fondamentale aspetto di equilibrio e rigenerazione sociale dei meccanismi delle democrazie. La democrazia non è indifferente rispetto ai modelli sociali su cui si applica e sarebbe riduttivo considerane soltanto la forma in senso giuridico politico. Bisogna innanzitutto dire che la dissociazione dei poteri e degli ordini non si riduce ad una finzione e non vi è ma una netta sovrapposizione nelle vedute e nelle scelte dei diversi ordini; ed essi non sono posti in modo propriamente gerarchico rispetto all’esercizio del potere. Infatti, tra i diversi ordini dei sindacati, dei dirigenti delle industrie, dei grandi funzionari, dei giornalisti, dei parlamentari ecc., ciò che in effetti si realizza non è un rapporto di subordinazione, ma è piuttosto un continuo dialogo ed una continua contestazione.

La procedura elettorale espone il vincitore di un giorno all’incostanza della fortuna e lascia ai vinti la possibilità di una rivincita. Attraverso i sindacati, le università, l’esercito, i laboratori, numerosi individui s’innalzano a questa dimensione di dirigenti nella quale non sono nati.[6]

Ed è in contrasto con questo ricambio e rimescolamento delle cariche e degli ordini che sia la lettura della storia come lotta di classe, che quella che vede in essa soltanto una lotta per il potere sui molti, non fanno altro che attribuire alla storia quella coerenza che la storia, nei fatti, non ha e non ha mai avuto. Tutte le letture della storia guidate su di una filosofia della storia non fanno altro che attribuire ad essa una coerenza ed un valore teleologico fondato su di un unico principio fondatore. Il punto è proprio quindi di scardinare questa presunta immagine di coerenza nella sua declinazione politica, sociale o istituzionale a vantaggio di una visione aperta e più coerente, questa volta sì, con il dinamismo sociale.


Questo ragionamento sembra più adatto ad un modello per l’analisi dei fatti che una risposta su quale democrazia.

Penso che il livello conoscitivo non possa essere, in casi come questo, disgiunto dal momento che riguarda la valutazione dei fatti. L’esistenza di una società divisa per ordini e per poteri è, come voleva Montesquieu, opportunamente insuperabile in quanto è su di questa separazione che si regge la libertà dei moderni e il pluralismo.

Infatti, l’ordine delle società industriali ha davanti due alternative possibili, l’una è quella che abbiamo visto nell’esperienza sovietica in cui un partito unico politicizza l’intera società, e ciò vale per tutti i modelli che si avviano alla modernizzazione a discapito della libertà e del pluralismo. L’altra via è quella delle società occidentali «in cui i superiori delle molteplici gerarchie perseguono un dialogo permanente e in cui il sottosistema politico tende a una relativa autonomia in rapporto agli altri sistemi.»[7] Oggi l’esperienza sovietica di industrializzazione ha mostrato tutti i suoi limiti, una alternativa che, in chiave diversa, ispirata a forme di fondamentalismo religioso, sembra ancora guidare le scelte di quei paesi dell’Estremo Oriente che hanno scelto la via della modernità sulla base di un rigetto per la democrazia e il pluralismo.


Per esprimere una valutazione che indichi una via di uscita, quantomeno morale, bisogna tenere quindi congiunti i fatti con la teoria, un esercizio non del tutto banale.

È proprio così, se riusciamo a valutare con correttezza riusciremo probabilmente ad formulare , e poi a sostenere, delle posizioni che sono coerenti con la dialettica democratica e con la dialettica della modernità che si esprimono, innanzitutto, attraverso il rigetto delle ideologie totalitarie o fondamentaliste. Infatti, l’industrializzazione e la modernizzazione della società trovano nella democrazia e nella tendenza egualitaria, la possibilità per tutti di elevarsi socialmente, una tendenza che non si trova in contraddizione con la “ferrea legge” del fatto oligarchico né con l’ereditarietà che privilegia la posizione di partenza. Il meccanismo essenziale di questo tipo di società sta nell’influenza che l’uomo comune può esercitare sui gruppi dirigenti attraverso l’esercizio del voto garantito come libertà di espressione. Certamente questa influenza non è sempre assicurata.

Il “fatto oligarchico” è inevitabile ma bisogna evitare di attribuirgli un valore ideologico o farne una chiave di lettura della storia e della società. Esso, privato di queste connotazioni, si presenta come una pura distinzione di ruoli; una distinzione che è inevitabile nella società moderna ma che non ha il significato della distinzione di classe, o delle caste ermeticamente chiuse. «Ciascuno degli innumerevoli ruoli sociali implicati dalla società moderna comporta gradi di eccellenza. D’altra parte, molti di questi ruoli implicano il potere dell’uomo sull’uomo.»[8] Questo potere, però viene mitigato e reso precario e, addirittura funzionale al benessere generale, dalla realtà della dissociazione democratica e delle categorie dirigenti.


Si tratta di una soluzione che assomiglia tanto ad una hegeliana presa di consapevolezza che vuole che ciò che è reale sia anche razionale, attraverso il quale si giustifica la società così com’è.

Pare ovvio che, per quanto ne sappiamo oggi, è difficile sfuggire dal destino della società nata dalla Rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese, esiste soltanto una maggiore o minore oscillazione mentre esperienze alternative, a partire da quella sovietica, non sono altro che tentativi di pianificazione di questo medesimo destino. Invece, il problema è oggi di stabilire quali sono i limiti dell’antinomia tra dissociazione pluralista e unificazione ideologica e non dal punto di vista politico, ma da quello che riguarda l’infrastruttura dei regimi delle società industriali.

Si tratta di definire un quadro chiaro per una antinomia immanente alla stessa modernità, che è, in un certo senso, insuperabile, poiché essa è allo stesso tempo frutto e prodotto del progresso scientifico che in quanto tale condanna le società moderna ad una perenne instabilità gestibile in modo coerente soltanto attraverso il pluralismo e la democrazia. In realtà i regimi a partito unico, come le ideologie moniste fondate sul culto della personalità, non rappresentano altro che il tentativo di fissare definitivamente questa antinomia superando attraverso un forzato e rovinoso irrigidimento quello che appare come un problema di instabilità a cui sono condannate le società industriali e moderne.

La società sovietica ha maturato al suo interno più di una delle contraddizioni della modernità. Infatti non  era tanto stata ispirata da un principio di equità e di uguaglianza, quanto da una certa idea del progresso di tipo ottocentesco che vedeva nella democrazia e nei parlamenti un ostacolo, a gli si contrapponevano una specie di mitizzazione positivista della scienza e della tecnica come “liberazione di tutte le forze produttive” presenti nella società e quindi subordinazione di ogni istanza sociale a questa ideale interpretazione della storia e deterministica previsione dell’avvenire. Un ideale che, portato alle sue estreme conseguenze, riproduce il sogno, o l’incubo, tecnocratico: un progetto implicito nello schema positivista e dal quale non è esente nessuna società di tipo industriale; un progetto stimolante soltanto fin quando rimane al livello di un polo dialettico all’interno della complessità sociale e della storia. Queste contraddizioni possono essere governate attraverso la loro opportuna conoscenza ma non oltre la dialettica democratica.


Ritorniamo alla domanda iniziale che prospettive vede per la destra italiana, esiste un progetto?

Si è sostenuto che la destra berlusconiana sarebbe una destra pragmatica attenta al raggiungimento di alcuni obiettivi e priva di una vera ideologia. Ciò può essere considerato vero solo in parte. Infatti, sebbene sia mancato un coerente piano teorico o ideologico espresso in modo intenzionale e consapevole dal punto di vista della fenomenologia politica, le decisioni e il comportamento complessivo sviluppato attraverso le azioni di propaganda non sono prive di una connotazione politico ideologica. Ovviamente questa connotazione non esprime una volontà o un programma di realizzazione di un modello sociale coerente con la matrice di tale ideologie, anzi proprio su questo aspetto si potrebbe dire che il berlusconismo esprimeva un progetto privo di vere finalità in quanto, in evidente contrasto con le promesse di cambiamento, punta a mantenere il modello socio economico esistente sul quale, per altro basa il suo consenso.

Elementi di tale teoria politica si possono individuare nell’attuale evoluzione populista che, rispetto alla dialettica democratica non si può dire che presenti aspetti di contrapposizione tra le due anime del cosiddetto Governo “giallo-verde”. In fondo, siamo ancora in presenza di una ideologia del “fare” che esalta l’azione rispetto alle procedure della scelta e l’incompetenza assunta a garanzia di autenticità. È una ideologia unica che rende omologhe la destra leghista con l’anti modernismo del Movimento 5 Stelle. In tal senso quando i leader dei due partiti al Governo dichiarano di avere superato la distinzione destra-sinistra non hanno torto: infatti è proprio questa la caratteristica del populismo analoga alla fase movimentista del fascismo il cui richiamo alla legittimazione della volontà popolare è un elemento centrale come per altro lo è stato nelle dittature dell’est Europa. Il populismo appare con una connotazione politica unica che è distante dal “decisionismo”, e dal “fare” pragmatico di tipo anglosassone che affonda le sue radici nella complessità della dialettica democratica della modernità e della democrazia. Ricordiamo che la civiltà politica di tipo anglosassone non ha mai conosciuto il fenomeno delle dittature in quanto ha saputo mantenere salda, nei secoli, la barra della libertà.

Appare evidente tuttavia che l’aspetto centrale del modello di comunicazione scelto da questa destra populista (in questa definizione non ritengo di dover fare distinzioni tra i due partiti al Governo in Italia) si colloca in una forma di semplificazione della politica che viene ridotta al suo aspetto propagandistico e di mantenimento del potere, o sarebbe meglio parlare di quote di mercato. Si tratta di una ideologia che riduce la politica al “mercato politico” a utilizza un programma realizzato in funzione di un prevalente modello di comunicazione propagandistica attraverso una semplificazione dei messaggi, coerente con il marketing pubblicitario, e attraverso una riduzione dei significati a due semplici parametri che sono quelli della coppia amico/nemico. Una necessità, questa, imposta dalla semplificazione del linguaggio. Tuttavia, tale operazione, che comporta delle conseguenze controllate nel campo della pubblicità commerciale, nel caso della politica contribuisce a dare una forte connotazione ai messaggi e al clima socioculturale tale da dare giustificazione e fondamento alle teorie sulla politica di Karl Schmitt.

Oltre a questi aspetti un nucleo politico sociale di tale destra è presente e risiede in quegli aspetti di cui abbiamo parlato sopra a proposito del riduzionismo e del machiavellismo: come negli altri casi si tratta di una visione ideologica che sclerotizza e mortifica la dialettica della modernità e della democrazia.


Quale analogia trova tra il pensiero di Karl Schmitt e l’ideologia populista che ha animato il dibattito politico in Italia fin dagli anni novanta?

Bisogna premettere che ci si trova di fronte a fenomeni che fanno uso di certe categorie schmttiane all’interno di un fenomeno di semplificazione dei messaggi politici utile alla comunicazione attraverso gli strumenti tradizionali del marketing oggi fattosi sempre più mirato e individualizzato attraverso l’uso dei social. Il messaggio si rivolge agli istinti più elementari del consumatore utente di politica pertanto il discorso politico si semplifica e diviene un elemento utile ad attrarre l’attenzione promuovendo meccanismi di identificazione e scelte elementari fondate sul binomio antipatia/simpatia, amico/nemico, onesta/disonestà, ecc. fino alla semplicità del messaggio razzista che identifica straniero con usurpatore o delinquente. In questa sorta di arena vince chi è più bravo a delegittimare e rende odioso l’avversario e la sua appartenenza politica evitando di intervenire nel merito delle questioni.

In questo paradigma emerge sullo sfondo un panorama politico di tipo schmitiano che vede pessimisticamente in modo negativo la natura umana e considera la politica come una risposta utile a tenere a bada i pericolosi istinti dell’uomo. In un quadro del genere l’inimicizia e la lotta hobbesiana tra individui diventa l’elemento fondativo di ogni agire politico. Il politico attraverso i suoi messaggi mette in scena l’antagonismo più estremo. Nemico politico è l’altro che, in certi contesti può essere anche lo straniero. L’inimicizia e il conflitto sono la guida con cui si tratta con l’altro. Questo tipo di messaggio viene continuamente ripetuto al fine di screditare l’avversario agli occhi del pubblico, per delegittimare le sue opinioni. È tipico che durante i dibattiti pubblici non ci si premura a fornire argomenti convincenti nel merito dei problemi, ma si punta a minare la credibilità personale dell’interlocutore, ciò che colpisce ancora è la mancanza di considerazione per il proprio stesso ruolo e la responsabilità politica o istituzionale. Un metodo essenzialmente violento che potrebbe aprire la porta ad ogni tipo di gesto.

L’informazione viene ridotta, in questo schema, alla propaganda dei regimi del secolo scorso. Il clima più tipico è quello del nemico interno ed esterno, oggi gli immigrati, che giustifica un clima di guerra civile perenne amplificato dai social network dove ognuno può dare sfogo alla propria rabbia come accadeva al tempo delle lapidazioni pubbliche.

Dove potrebbe condurre la creazione di un tale clima? È senza ombra di dubbia da auspicare che a questa destra populista si possa contrapporre oggi in Italia una destra di tipo istituzionale e più tesa a radicarsi nelle tradizioni e nelle istituzioni liberali rendendosi affine al gollismo, questa destra potrebbe ereditare le spoglie di una destra che, come l’apprendista stregone, appare tesa ad evocare forze che un giorno potrebbe non essere più in grado di controllare.


Esistono ancora margini per la sinistra?

A fronte di un quadro così compromesso, la sinistra italiana, ma direi tutta la sinistra europea, evitando pericolosi ripiegamenti nostalgici che fanno da pendant al populismo, deve sicuramente fare ogni sforzo per rendere compiuto il passaggio al riformismo e fare proprie le istanze del liberalismo politico su cui si fondano le democrazie e il moderno stato di diritto. È fondamentale che la sinistra acquisisca in modo irreversibile l'idea che la democrazia e le istanze della società liberali non sono in contraddizione con la giustizia sociale, tutt’altro! È proprio su questo equilibrio che si genera e si rinnova la democrazia! Certamente esistono oggi nella sinistra diverse e contrastanti posizioni, ma penso che su quei valori sia possibile trovare una convergenza o, come si usa dire oggi, un’intersezione su cui fondare il consenso; queste intersezioni potrebbero oggi essere la base di una unica forma costitutiva di una sinistra liberale in forma federata tra diverse opzioni concordi sui valori fondamentali che, come sosteneva Platone, sono la base di ogni discussione e della dialettica.


Parigi, settembre 2018


[1] Op. cit. p. 63. [Sarebbe interessante confrontare questa „interpretazione“ del pensiero di Machiavelli con quella di Weber, così importante per la formazione del pensiero di Aron; e poi con quella di Gramsci, per cercare dei riscontri nel pensiero aroniano in un contemporaneo dei due sociologi sopra citati.]
[2] Op. cit. p. 63.
[3] Op. cit. p. 63. Questa operazione di riduzione e di assolutizzazione del problema del potere si presenta come maggiormente realista. Ma in realtà non è che il frutto di una forma di scetticismo verso il pensiero razionale che si pone la soluzione del problema del potere nella società moderna, uno scetticismo ispirato ad un empirismo iper realista che non concede nulla all’astrazione. Sarebbe interessante fare un confronto con quelle espressioni del pensiero anarchico che postulano l’unicità dell’individuo quale premessa dell’abolizione dello Stato: le affinità sono probabilmente maggiori di quanto il richiamo al valore assoluto della libertà non lasci intendere.
[4] «L’originalità delle società industriali non dipende dalla persistenza della politica, ma della differenziazione delle gerarchie. Gli stessi uomini nelle società occidentali, non dirigono le amministrazioni pubbliche e le imprese private; la politica diventa un mestiere più o meno riservato a professionisti. Scienziati, artisti, scrittori, professori, tutti battezzati intellettuali, non si sottomettono nella loro propria attività che alla sola autorità dei loro pari. I segretari dei sindacati operai non obbediscono ai capi d’impresa, i preti non comandano né obbediscono agli scienziati o ai governanti. In altre parole, l’ordine apparentemente caratteristico delle società industriali comporta la dissociazione dei poteri: potere temporale diviso tra i direttori d’impresa, il personale politico, i leader, i capi dell’esercito; potere spirituale diviso tra i teologi, gli intellettuali e gli ideologi. La pluralità delle categorie dirigenti costituisce il primo dato, pluralità che permette confronti oggettivi tra i regimi.» Op. cit. p. 65.
[5] Op. cit. p. 68.
[6] Op. cit. p. 69.
[7]             Op. cit. p. 71.
[8]             Op. cit. p. 71.

Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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