martedì 7 maggio 2019

Tribalismo e intenzionalità condivisa - 0.1 quaestio

Nella teoria politica, anche a sinistra, è sempre più diffusa una concezione che vuole le emozioni quali strumento su cui modulare la comunicazione al fine della persuasione alla stregua di un avvocato che vuole toccare le corde del sentimento, sia di odio o di compassione, per persuadere la giuria, nel caso gli elettori, delle proprie ragioni e della scorrettezza dell’avversario. In questo quadro le emozioni diventano strumento di marketing, valutate su metriche orientate a sollecitare le emozioni contrapposte della paura o della speranza e quindi della felicità attraverso esperienze (fatti di cronaca, immagini, giudizi, battute) decontestualizzate, o a volte del tutto false, fino all'illusione e l’inganno.

Ma il rapporto tra emozioni e politica passa attraverso il marketing? Certamente sì se le emozioni sono considerate soltanto al fine del controllo (Machiavelli). Non è così invece, nell’ambito di una riflessione che deve coinvolgere una attività politica coerente con i valori della libertà, della democrazia dei diritti, civili e sociali. Potremmo addirittura distinguere, nell’ambito del linguaggio politico, una concezione, per così dire machiavelliana (autoritaria e manipolatoria); da una concezione democratica delle emozioni (improntata al riconoscimento, o meglio all’empatia e alla compassione intesa anche in senso religioso e di condivisione). Qui per i progressisti, parlare ai sentimenti, vuol dire costruire un linguaggio della politica che dia spazio alla realtà emotiva in termini di riconoscimento e non di messaggio unidirezionale di indirizzamento controllo delle opinioni. Ma perché ciò si realizzi non è sufficiente distinguere tra emozioni positive ed emozioni negative; non è sufficiente una attrezzatura di segni e segnali che colpiscano il lato illuminato del cervello delle persone o degli elettori, piuttosto che il lato oscuro come accade nel linguaggio della destra illiberale e reazionaria.
Bisogna considerare che c'è però anche una destra liberale che cerca il lato illuminato in quanto è una destra progressista proprio come la sinistra; come, si potrebbe dire, c'è anche una sinistra conservatrice. In tal senso oggi è più forte la distinzione e la contrapposizione tra progressisti e conservatori che non tra destra e sinistra. Per questo parliamo di progressisti, come aderenti ai valori della democrazia ai valori liberali e dello stato di diritto, come della scienza e di sviluppo sociale ed economico.

L’apertura di una frequenza per i progressisti rispetto alla percezione emotiva nel linguaggio della politica, porta a fare una riflessione sulle emozioni e i fondamenti della morale, in quanto non si tratta semplicemente di realizzare slogan o spot efficaci dal punto di vista del marketing elettorale, ma di costruire una nuova dimensione di condivisione e di comunicazione, un linguaggio condiviso sui valori e sulla propria storia e identità che non consideri i sentimenti alla stregua di fattori inquinanti, irrazionali e devianti rispetto alla ricerca della “verità” o della giustizia o della semplice “giustezza”. Infatti, il primo limite dei progressisti alla costruzione di questo linguaggio e il “razionalismo” e, prima di questo e in certi ambiti particolari, sia in senso storico che geopolitico, la matrice ideologica del linguaggio e della trasmissione dei valori rimangono oscurati proprio dietro alla razionalità e all’ideologia. Quindi ripensare al linguaggio vuol dire con meticolosità da archeologo e da antropologo la sinistra progressista deve ripulire e ricostruire i valori su cui è nata sepolti sotto un razionalismo che, potremmo dire, metafisico o ideologico, e l’ideologia considerata come una filosofia e interpretazione “a priori” della storia, della realtà e dei comportamenti individuali.

Domanda. Ciò detto, attraverso le note su Jonathan Haidt, cominciamo col porci una domanda: la Teoria della giustizia di Rawls, in particolare nella sua versione aggiornata, in cui si pongono al centro i due sensi morali, il senso del bene e il senso di giustizia, considerati, insieme al principio aristotelico, la bussola che guidano l’individuo verso la scelta “razionale” sotto il velo di ignoranza; considerando in particolare questa versione, per così dire, più liberale in termini di individualismo, ci domandiamo:

il razionalismo della teoria di Rawls è “razionalista”? oppure ha un fondamento di tipo intuizionista? Un fondamento che aprirebbe un orizzonte verso un “razionalismo non metafisico”, attenuato, nella sua razionalità, dalla teoria dei sentimenti morali. Una attenuazione che condurrebbe a riconsiderare le emozioni anche nel campo del razionalismo liberal e della sinistra razionalista e post storicista?

Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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