0.2.2 - Democrazia e dialettica del progresso
Il cambiamento che viene dal
progresso, e quindi la rivoluzione come “espansione delle forze produttive” in
senso marxista, per Aron, non ha bisogno di rivoluzioni. Le esigenze di
accrescimento del prodotto sociale e l’elevazione del tenore di vita richiedono
invece regimi democratici in cui gli affari pubblici e l’organizzazione dello
Stato possa essere oggetto di una «pacifica competizione tra gruppi dotati di
relativa autonomia.»[1]
In questo quadro le esigenze dell’uguaglianza e quindi della parificazione dei
redditi devono conciliarsi con quelle della libertà e dell’iniziativa
individuale e con quanto ciò significhi in termini di diritti dell’individuo
nella coscienza che «sotto qualsiasi regime, tradizionale, borghese, o
socialista, la libertà dello spirito e la solidarietà umana sono sempre
tutt’altro che assicurate»[2],
ma sempre e costantemente da conquistare.
Le esigenze di accrescimento del prodotto sociale e l’elevazione del
tenore di vita richiedono regimi democratici in cui gli affari pubblici e
l’organizzazione dello Stato possa essere oggetto di una «pacifica competizione
tra gruppi dotati di relativa autonomia.»[3]
Il cambiamento che porta al progresso ha bisogno della stabilità e
dell’equilibrio democratico che riesce a comporre i conflitti e ad indirizzarli
in direzione del miglioramento. La democrazia va quindi intesa come pacifica
espressione di un conflitto che porta al progresso il sistema sociale
nell’equilibrio tra spinte verso la libertà, cioè maggiori diritti e maggiore
partecipazione alla gestione della cosa pubblica; e le spinte che provengono
dal progresso della tecnica e dall’economia che realizzano nuove forme di
disparità destinate parificarsi in forme superiori di eguaglianza attraverso
nuove conquiste di libertà. Quest’equilibrio viene meno se si comprimono o si eliminano
le forme intermedie attraverso le quali, per così dire, questi processi
transitano nella dialettica del meccanismo democratico che non vede fini
supremi e non è strumento per la realizzazione di questi, ma l’alveo della
civiltà politica e giuridica in cui questi fini diventano possibile realtà.
La dialettica del progresso e della democrazia nella realizzazione di
maggiori diritti di cittadinanza non è stata risolta dalla ricetta
rivoluzionaria della sinistra storica o meglio delle ideologie manifeste del
socialismo reale. Esistono alcuni punti fissi intorno a cui si realizza, più
spesso in modo contrastante che in modo democratico, la dialettica del
progresso. Questi punti sono rappresentati dalle istanze che riguardano
l’individuo e quelle che tendono ad una organizzazione razionale dei processi
della produzione economica e delle relazioni sociali anche attraverso l’uso
delle conquiste della tecnica. Si tratta di istanze che, di per sé, appaiono
incompatibili, ma la sfida per una condizione di libertà è quella di riuscire a
tenerle insieme attraverso un metodo quanto più possibile non invasivo. «Il
problema di ogni regime consiste nell’ottenere un ragionevole compromesso tra
esigenze di per sé incompatibili.» Per la sinistra storica appare arduo poter
conciliare l’uguaglianza dei redditi con il massimo della produttività. Nel
tentativo di conciliare queste due esigenze la sinistra è riuscita soltanto a
proporre forme di monopolio attraverso la statalizzazione di settori
dell’economia, riuscendo sì a frantumare il potere dei ceti privilegiati ma
senza realizzare quella eguaglianza di condizione perseguita negli ideali né
innalzando il povero e il debole, né abbassando il ricco e il forte,
realizzando al contrario la stessa combinazione di potenza economica e potenza
politica di cui si accusano i monopolisti.[4]
Per Aron “statalismo” on corrisponde a “maggiore giustizia sociale” o a più
equità, ma corrisponde ad un modo di monopolizzare settori dell’economia che
vengono così sottratti alla legge del mercato con danno complessivo per
l’economia e lo sviluppo.
Rispetto al cambiamento si può dire
che riformisti mirano al fine della realizzazione di «una società pacifica,
liberale e governata dalla ragione»3.
Una società che sia in grado di consentire il beneficio più diffuso verso ogni
ceto sociale dei risultati del progresso scientifico e della tecnica. Una
società che tende verso quei fini sempre e soltanto con, a volte maggiore, a
volte minore approssimazione per la realizzazione di un sistema sociale che si
ispira ad un modello di equità, mai pienamente raggiungibile, ma percorribile
soltanto attraverso la dialettica dei
sistemi democratici.
Nella ricerca di questo fine anche per la sinistra progressista,
attraverso il potere rivoluzionario, in ogni circostanza storica, ha finito col
trasformarsi in un potere tirannico per l’impossibilità di mantenere un
rapporto positivo con le istanze della democrazia liberale e tradendo così le
fondamenta del progresso. Il progresso apportato attraverso la società
industriale è la vera rivoluzione che ha consentito di includere sempre più
masse enormi a maggiori benefici, ai diritti, alla cittadinanza come al
miglioramento delle condizioni di vita. Anche per questo l’esperimento
sovietico non è stato altro che un modo autoritario di interpretare il
progresso e l’industrialismo. Il suo fallimento porta il nome della libertà e
della democrazia. Per tale motivo «l’uomo ragionevole, l’uomo di sinistra in
particolare, dovrebbe preferire la terapia alla chirurgia e le riforme alla
rivoluzione, come deve preferire la pace alla guerra e la democrazia al
dispotismo.»4
Secondo Aron i valori politici e i
valori economici e sociali della sinistra, che hanno segnato le successive
tappe del progresso non sempre sono risultati in associazione al di fuori delle
esperienze socialdemocratiche europee. La dissociazione è particolarmente
marcata nelle società che si presentano con un ceto medio troppo debole e una
massa consistente di ceti effetti da analfabetismo. Oggi l’analfabetismo sembra
essere sconfitto nei paesi europei ma persistono i problemi che riguardano i
ceti medi mentre emerge un problema che riguarda forme di subculture che si
presentano come soluzioni per i problemi non risolti dal progresso e dai
cambiamenti dei contesti sociali più tradizionali che sono colpiti da crisi
economiche e di identità.
Aron associa le sorti
della democrazia alla esistenza sociale e culturale di un ceto medio
consapevole e radicato con valori nelle istituzioni parlamentari. Nelle crisi
economiche avere un ceto medio consistente e in grado di accedere ai diritti
sanciti dalle istituzioni democratiche, anche attraverso l’uso delle risorse economiche,
è sicuramente necessario per la tenuta delle democrazie in Europa. Le forme di
autoritarismo che si sono riaffacciate nei Paesi dell’ex blocco sovietico, o
nei paesi latino americani, oltre che a forme, finora minoritarie, di sub
culture illiberali falsamente ambientaliste ma anti moderniste nella sostanza,
è senza dubbio dovuto alla debolezza di un ceto medio forte e culturalmente
ancorato alla prassi istituzionale delle democrazie liberali. Ciò può valere
anche per paesi come l’Italia? A proposito il pensiero di Aron appare di
estrema attualità: «ogni volta che una grave situazione economica dimostra
l’incapacità dei regimi parlamentari di provvedere ai bisogni delle società
industriali di massa, la forza di attrazione dei partiti a carattere
totalitario [e populista] si accresce o rischia di dominare del tutto la scena politica»[5]