lunedì 6 agosto 2018

Raymond Aron 0.2 – Riformismo e democrazia: alternativa all’oppio del mito politico della rivoluzione


0.2.2 - Democrazia e dialettica del progresso
Il cambiamento che viene dal progresso, e quindi la rivoluzione come “espansione delle forze produttive” in senso marxista, per Aron, non ha bisogno di rivoluzioni. Le esigenze di accrescimento del prodotto sociale e l’elevazione del tenore di vita richiedono invece regimi democratici in cui gli affari pubblici e l’organizzazione dello Stato possa essere oggetto di una «pacifica competizione tra gruppi dotati di relativa autonomia.»[1] In questo quadro le esigenze dell’uguaglianza e quindi della parificazione dei redditi devono conciliarsi con quelle della libertà e dell’iniziativa individuale e con quanto ciò significhi in termini di diritti dell’individuo nella coscienza che «sotto qualsiasi regime, tradizionale, borghese, o socialista, la libertà dello spirito e la solidarietà umana sono sempre tutt’altro che assicurate»[2], ma sempre e costantemente da conquistare.
Le esigenze di accrescimento del prodotto sociale e l’elevazione del tenore di vita richiedono regimi democratici in cui gli affari pubblici e l’organizzazione dello Stato possa essere oggetto di una «pacifica competizione tra gruppi dotati di relativa autonomia.»[3] Il cambiamento che porta al progresso ha bisogno della stabilità e dell’equilibrio democratico che riesce a comporre i conflitti e ad indirizzarli in direzione del miglioramento. La democrazia va quindi intesa come pacifica espressione di un conflitto che porta al progresso il sistema sociale nell’equilibrio tra spinte verso la libertà, cioè maggiori diritti e maggiore partecipazione alla gestione della cosa pubblica; e le spinte che provengono dal progresso della tecnica e dall’economia che realizzano nuove forme di disparità destinate parificarsi in forme superiori di eguaglianza attraverso nuove conquiste di libertà. Quest’equilibrio viene meno se si comprimono o si eliminano le forme intermedie attraverso le quali, per così dire, questi processi transitano nella dialettica del meccanismo democratico che non vede fini supremi e non è strumento per la realizzazione di questi, ma l’alveo della civiltà politica e giuridica in cui questi fini diventano possibile realtà.
La dialettica del progresso e della democrazia nella realizzazione di maggiori diritti di cittadinanza non è stata risolta dalla ricetta rivoluzionaria della sinistra storica o meglio delle ideologie manifeste del socialismo reale. Esistono alcuni punti fissi intorno a cui si realizza, più spesso in modo contrastante che in modo democratico, la dialettica del progresso. Questi punti sono rappresentati dalle istanze che riguardano l’individuo e quelle che tendono ad una organizzazione razionale dei processi della produzione economica e delle relazioni sociali anche attraverso l’uso delle conquiste della tecnica. Si tratta di istanze che, di per sé, appaiono incompatibili, ma la sfida per una condizione di libertà è quella di riuscire a tenerle insieme attraverso un metodo quanto più possibile non invasivo. «Il problema di ogni regime consiste nell’ottenere un ragionevole compromesso tra esigenze di per sé incompatibili.» Per la sinistra storica appare arduo poter conciliare l’uguaglianza dei redditi con il massimo della produttività. Nel tentativo di conciliare queste due esigenze la sinistra è riuscita soltanto a proporre forme di monopolio attraverso la statalizzazione di settori dell’economia, riuscendo sì a frantumare il potere dei ceti privilegiati ma senza realizzare quella eguaglianza di condizione perseguita negli ideali né innalzando il povero e il debole, né abbassando il ricco e il forte, realizzando al contrario la stessa combinazione di potenza economica e potenza politica di cui si accusano i monopolisti.[4] Per Aron “statalismo” on corrisponde a “maggiore giustizia sociale” o a più equità, ma corrisponde ad un modo di monopolizzare settori dell’economia che vengono così sottratti alla legge del mercato con danno complessivo per l’economia e lo sviluppo.
Rispetto al cambiamento si può dire che riformisti mirano al fine della realizzazione di «una società pacifica, liberale e governata dalla ragione»3. Una società che sia in grado di consentire il beneficio più diffuso verso ogni ceto sociale dei risultati del progresso scientifico e della tecnica. Una società che tende verso quei fini sempre e soltanto con, a volte maggiore, a volte minore approssimazione per la realizzazione di un sistema sociale che si ispira ad un modello di equità, mai pienamente raggiungibile, ma percorribile soltanto attraverso la dialettica dei sistemi democratici.
Nella ricerca di questo fine anche per la sinistra progressista, attraverso il potere rivoluzionario, in ogni circostanza storica, ha finito col trasformarsi in un potere tirannico per l’impossibilità di mantenere un rapporto positivo con le istanze della democrazia liberale e tradendo così le fondamenta del progresso. Il progresso apportato attraverso la società industriale è la vera rivoluzione che ha consentito di includere sempre più masse enormi a maggiori benefici, ai diritti, alla cittadinanza come al miglioramento delle condizioni di vita. Anche per questo l’esperimento sovietico non è stato altro che un modo autoritario di interpretare il progresso e l’industrialismo. Il suo fallimento porta il nome della libertà e della democrazia. Per tale motivo «l’uomo ragionevole, l’uomo di sinistra in particolare, dovrebbe preferire la terapia alla chirurgia e le riforme alla rivoluzione, come deve preferire la pace alla guerra e la democrazia al dispotismo.»4
Secondo Aron i valori politici e i valori economici e sociali della sinistra, che hanno segnato le successive tappe del progresso non sempre sono risultati in associazione al di fuori delle esperienze socialdemocratiche europee. La dissociazione è particolarmente marcata nelle società che si presentano con un ceto medio troppo debole e una massa consistente di ceti effetti da analfabetismo. Oggi l’analfabetismo sembra essere sconfitto nei paesi europei ma persistono i problemi che riguardano i ceti medi mentre emerge un problema che riguarda forme di subculture che si presentano come soluzioni per i problemi non risolti dal progresso e dai cambiamenti dei contesti sociali più tradizionali che sono colpiti da crisi economiche e di identità.
Aron associa le sorti della democrazia alla esistenza sociale e culturale di un ceto medio consapevole e radicato con valori nelle istituzioni parlamentari. Nelle crisi economiche avere un ceto medio consistente e in grado di accedere ai diritti sanciti dalle istituzioni democratiche, anche attraverso l’uso delle risorse economiche, è sicuramente necessario per la tenuta delle democrazie in Europa. Le forme di autoritarismo che si sono riaffacciate nei Paesi dell’ex blocco sovietico, o nei paesi latino americani, oltre che a forme, finora minoritarie, di sub culture illiberali falsamente ambientaliste ma anti moderniste nella sostanza, è senza dubbio dovuto alla debolezza di un ceto medio forte e culturalmente ancorato alla prassi istituzionale delle democrazie liberali. Ciò può valere anche per paesi come l’Italia? A proposito il pensiero di Aron appare di estrema attualità: «ogni volta che una grave situazione economica dimostra l’incapacità dei regimi parlamentari di provvedere ai bisogni delle società industriali di massa, la forza di attrazione dei partiti a carattere totalitario [e populista] si accresce o rischia di dominare del tutto la scena politica»[5]


[1] Raymond Aron L’oppio degli Intellettuali, 1955, Cappelli Edizioni, p. 46.
[2] op. cit., p. 50.
[3] op. cit., p. 46.
[4] op. cit., p. 45.
[5] op. cit., p. 39.

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Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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