lunedì 6 agosto 2018

Raymond Aron 0.1 – Riformismo e democrazia: alternativa all’oppio del mito politico della rivoluzione


0.2.1 - Il mito della rivoluzione
Ricorre, secondo Raymond Aron in modo costitutivo ed essenziale, una dissociazione tra la realtà ideologica, a cui aderiscono gli interpreti della rivoluzione, e la realtà storica, gli eventi sociali ed economici che si punta radicalmente a cambiare. Questa distanza, tra la realtà dei fatti e le convinzioni dei rivoluzionari, è indice, e misura, del motivo per cui le rivoluzioni, nel lungo termine, tendono ad avere un andamento catastrofico nonostante le migliori convinzioni dei protagonisti. Da questa idea, base delle sue riflessioni sulla storia e la storiografia, si evince come per Aron i fatti oggettivi, economici, sociali, naturali, le scoperte, le invenzioni, la scienza, la tecnica, ecc., si intreccino con le decisioni e le convinzioni dei protagonisti che sono egualmente responsabili dei risultati a cui le società pervengono, nel bene e nel male, senza che ciò possa essere predeterminato da leggi oggettive che possano indicare l’evoluzione del percorso storico dell’umanità.
Aron considera le rivoluzioni nella modernità non come veri momenti di “cambiamento”, ma come rovesciamenti operati da élites contro altre élites; fenomeni che sono «sintomo di crisi e di contraffazione dello spirito progressista»1 e del cambiamento degli equilibri sociali e istituzionali precedenti. I regimi sono caduti e continueranno a cadere, ma ciò non per i vizi morali e le ingiustizie subite dai ceti subalterni, come prospetta la propaganda dei rivoluzionari. I regimi sono caduti e cadono invece perché non sanno dare risposte politiche capaci di aprire prospettive di riforma e di “cambiamento” negli equilibri sociali ed economici verso cui spinge il progresso.[1]
La caduta violenta di quei regimi incapaci di dare risposte alla domanda di cambiamento, spesso non ha rappresentato una risposta a queste esigenze.  Infatti, le rivoluzioni, nel lungo termine, non hanno mai storicamente rappresentato la nascita di un mondo migliore e nuovo nei rapporti e nelle relazioni sociali; non hanno saputo coniugare “il cambiamento con il progresso”; mentre sono sempre finite sempre col tradire le premesse di giustizia da cui sono partite. In tal senso, le rivoluzioni, non sono da considerare veri segni di cambiamento dei sistemi sociali. Al contrario, l’affacciarsi dei fenomeni rivoluzionari e dell’instabilità politica e costituzionale, va colto come segno di malattia di un sistema sociale e non di salute e di nascita del nuovo.
Le rivoluzioni hanno il solo e preminente effetto di attivare una circolazione tra le élites al potere, più che la realizzazione di un nuovo sistema o stato della società: «al crollo dei troni e delle repubbliche, la conquista dello stato da parte di minoranze attive, non hanno sempre coinciso con un sovvertimento delle istituzioni, né nel passato né ai nostri giorni.»2 La Francia ha conosciuto nel corso del XVIII più eventi rivoluzionari, ma nessuna di queste è riuscita a realizzare quelle riforme riconosciute necessarie da quasi tutte le menti più illuminate.
Riforme in grado si seguire le tendenze espansive dei diritti e del benessere della società (entitlements e provisions) sono state realizzate invece in paesi quali l’America o l’Inghilterra attraverso trasformazioni effettuate nella continuità della legalità costituzionale; riforme che hanno dimostrato di essere il migliore interprete delle istanze dell’Illuminismo e della società moderna fondate sullo stato di diritto e sulla democrazia propense alla edificazione della civiltà industriale e capaci di realizzare una sempre migliore distribuzione dei benefici del progresso scientifico e della tecnica. Sistemi “aperti”, per così dire, che per secoli hanno saputo salvaguardare la loro tradizione istituzionale saldamente ancorata ai valori liberali della società moderna, che, avendo sempre saputo interpretare le esigenze di rinnovamento e di cambiamento, non hanno mai vissuto momenti traumatici nel corso della loro storia.
Per Aron la sinistra non è rivoluzionaria se si scrutano i principi storico sociali della sua affermazione come cultura politica e quindi istituzionale. Il fatto che Marx si fosse trasferito in Inghilterra attesta da una parte l’idea di oggettività che Marx attribuiva alla sua interpretazione del progresso sociale in sintonia con una filosofia della storia di tipo hegeliano e teleologica, pertanto chiusa e distante da istanze di tipo volontaristico. L’idea rivoluzionaria presuppone invece l’intervento volontaristico e ideologico anche nel senso deteriore che Marx attribuiva alla ideologia. In sostanza Marx non può essere considerato un “marxista rivoluzionario” ma piuttosto uno scienziato sociale dell’ottocento che riteneva di avere individuato una chiave di interpretazione oggettiva e rispondente a leggi ben definite del corso delle vicende umane. Una interpretazione che parte da una forma centrale di umanesimo per scaturire in una filosofia della storia fondata univocamente su una presunta legge della dinamica sociale. Anche per quanto riguarda i sostenitori dell’illuminismo si confidava in un cambiamento considerato come liberazione innanzi tutto dal pregiudizio e dalla superstizione e su questa via aprirsi ad una nuova prospettiva umana di progresso e illuminazione.
Proprio per questa sua caratteristica intrinseca, il mito rivoluzionario, orientato più alla distruzione che alla costruzione, non è da ricondurre alle aspirazioni politiche della sinistra progressista che sono orientate a considerare e l’avvenire in modo ottimistico e costruttivo. Infatti, per la sinistra, più che la rivoluzione, si può dire piuttosto che è il progresso, come già lo individua Marx nel Manifesto, l’espansione delle capacità produttive, il vero obiettivo da perseguire e la chiave della storia, più che il rovesciamento delle istituzioni e delle Stato. Secondo Aron il mito della sinistra contiene implicitamente l’idea del Progresso e apre la prospettiva di un moto continuo. Il mito della Rivoluzione per la sinistra marxista (formatosi successivamente a Marx) ha un significato complementare e opposto: nutre l’attesa di una rottura con le vicende umane di ogni giorno: «I rivoluzionari – dice Aron - sono riconoscibili dal loro odio contro il mondo e dalla loro mentalità catastrofica»[2].
Inoltre bisogna considerare che nella valutazione degli storici, quello rivoluzionario è un mito che è frutto di una riflessione retrospettiva, costruita ad hoc per giustificare le premesse del presente politico con gli eventi del passato.[3] Se si rinuncia a questa lettura dottrinale del passato parrà chiaro come, nella stessa Francia del XVII secolo, anche coloro che, secondo il senso dato dagli storici, sembravano aver preparato la grande Rivoluzione mediante la diffusione di una mentalità illuminata e incompatibile con quella dell’Ancienne Régime, non annunziavano né caldeggiavano il crollo apocalittico del vecchio mondo. Quasi tutti quegli audaci teorici “rivoluzionari” mostravano, al contrario, grande prudenza accreditandosi spesso come consiglieri del Principe o del legislatore. La medesima prudenza che usava Jean-Jeaques Rousseau, oggi considerato precursore dell’egualitarismo giacobino e della rivoluzione.
Durante l’Illuminismo, intellettuali e teorici del cambiamento, non propendevano per la catastrofe rivoluzionaria, ma, al contrario, inclinavano quasi tutti all’ottimismo in vista di una nuova società: appena fossero tolti di mezzo i pregiudizi, fanatismo, appena l’umanità fosse stata illuminata, l’ordine naturale della società più libera e giusta sarebbe stato realizzato. Infatti, dal 1792 in poi, la Rivoluzione fu considerata dai contemporanei, filosofi inclusi, come una catastrofe. Ma con la successiva acquisizione di una prospettiva storica tendente a dare fondamento e legittimità al nuovo regime, si finì per perdere il senso della catastrofe e per celebrare soltanto la grandezza dell’avvenimento, interpretatolo in chiave di slancio tendente alla liberazione degli uomini e all’organizzazione razionale della collettività anche attraverso la conquista del potere realizzata attraverso il sovvertimento violento.
Tali giustificazioni hanno contribuito a far giustificare la stessa violenza tanto da fondare un mito e una fede nella potenza sovvertitrice della massa rivoluzionaria, unica forza capace di foggiare l’avvenire.[4] Un mito che oggi rappresenta un potente oppio per una certa politica continentale.
Ogni rivoluzione si è presentata alla storia con lo schema che vede a una fase distruttiva e nichilista, corrispondere una costruttiva che riguarda i passaggi per la costruzione del nuovo e del cambiamento prospettato. Tuttavia, dice Aron le fasi della “rivoluzione costruttiva” non esigono per forza di cose il ricorso o il passaggio attraverso una “rivoluzione distruttiva”: «nulla impedisce – come accaduto in altre realtà istituzionali - di pensare che anche la monarchia potesse introdurre a poco a poco gli elementi essenziali di ciò che a distanza ci appare opera della Rivoluzione. Ma le ideologie che animavano la Rivoluzione travolsero la mentalità sulla quale la monarchia era fondata, pur senza essere a rigore incompatibili con essa; [e così] suscitarono quella crisi legittimistica che produsse la grande peur e il Terrore»[5]
Le rivoluzioni sociali che si manifestano con una carica distruttiva e iconoclasta non è detto che seguano le forme “rivoluzionarie” del progresso, almeno quello prospettato e auspicato da filosofi e intellettuali illuministi, nel processo di affrancamento dell’essere umano dai vincoli della natura e di sviluppo della conoscenza. In tal senso è spesso storicamente accaduto che ciò che nelle attualità viene considerato come nuovo e rivoluzionario, alla prova dei fatti, può trovarsi in contrasto con le istanze portatrici del progresso dell’umanità.
Dall’altro lato niente indica che per vedere attuate, e rendere disponibili al maggior numero di individui, i vantaggi e il miglioramento delle condizioni provenienti dalle conquiste del progresso dell’umanità, sia necessario che si realizzino dei moti violenti e distruttivi delle istituzioni.
Nella realtà storica l’unico meccanismo oggettivo che è possibile riscontrare è soltanto quel lento e costante processo di cambiamento che intreccia lo sviluppo della conoscenza con la crescita della società e delle relazioni sociali, quello che viene cioè definito come “progresso”. Le rivoluzioni, al contrario, non seguono mai la traccia segnata dal progresso. Questa traccia la segue invece il riformismo.
Le vicende rivoluzionarie portano sempre ad un potere totalitario e tirannico: «Un potere rivoluzionario è per definizione un potere tirannico. Viene esercitato in contrasto con le leggi, esprime la volontà di un gruppo più o meno numeroso, si disinteressa e deve disinteressarsi degli interessi particolaristici di questa o quella frazione del popolo. La fase tirannica dura più o meno a lungo, a seconda delle circostanze, ma non si riesce mai ad evitarla – o, più esattamente, quando si riesce, si ha riforma e non rivoluzione. La conquista e l’esercizio del potere con mezzi violenti presuppongono conflitti non risolti mediante trattative o compromessi; in altre parole il fallimento dei metodi democratici. Rivoluzione e democrazia sono nozioni contraddittorie.»[6]
«La paralisi dello Stato, la consunzione della classe dirigente, l’anacronismo delle istituzioni rendono talvolta inevitabile e talvolta desiderabile il ricorso alla violenza da parte di una minoranza.»[7] Ma l’uomo ragionevole, l’uomo di sinistra in particolare – dice Aron - «dovrebbe preferire la terapia alla chirurgia e le riforme alla rivoluzione, come deve preferire la pace alla guerra e la democrazia al dispotismo.»[8]
Per Aron, il discrimine tra destra e sinistra non è da porre sulla linea di richiamo moralistico ad una missione rivoluzionaria e palingenetica. Infatti, il ‘900 ha dimostrato che il termine “rivoluzione” e “rivoluzionario” può anche connotare una destra che prospetta un cambiamento in chiave conservativa e di chiusura che utilizza in modo socialmente escludente e limitato i risultati della modernità, orientandoli alle finalità aggressive del nazionalismo, come è stato negli anni venti del secolo scorso.
Il discrimine diventa quindi quello tra i valori del progresso e della società aperta, fondata sulla democrazia e lo stato di diritto, nata dalla modernità delle due rivoluzioni; oppure l’utilizzo dei risultati del progresso stesso ai fini di una affermazione autoritaria e illiberale: in questa chiave troviamo regimi di “sinistra” che non si distinguono da quelli di “destra” se non per una autocelebrazione ideologica. Si tratta di regimi che negano la democrazia e i diritti civili mentre declinano in chiave di chiusura esclusiva i valori della uguaglianza rigettando i valori della libertà. E anche nella valutazione politica diventa molto più complicato distinguere tra politiche di “destra” o di “sinistra” se lo spartiacque non è più di tipo moralistico ma di collocazione rispetto ai temi del progresso e dello sviluppo.
È evidente in Aron l’idea di fondo, “erasmiana”, che lo accomuna a Popper, a Sen, che lega libertà, stato di diritto, democrazia e giustizia sociale con il progresso scientifico e la modernità, lo sviluppo della tecnologia e il mercato. In fondo l’errore dei rivoluzionari è pensare di poter perseguire i benefici del progresso rinunciando alla democrazia e alla libertà costruiti sullo stato di diritto e sulla rappresentanza, una idea che si è dimostrata fallimentare e catastrofica.



[1] Quando Aron parla di “progresso” si riferisce a tutto ciò che è concretamente misurabile come espansione della produzione economica, realizzazione di infrastrutture e crescita della società in termini di miglioramento delle condizioni di vita dovute alle scoperte scientifiche ed alle tecnologie e quindi anche la crescita demografica. Quindi niente di “filosofico”!
[2] Raymond Aron L’oppio degli Intellettuali, 1955, Cappelli Edizioni, p. 87.
[3] In questo concetto si esprime indirettamente la critica alle ricostruzioni storiografiche ispirate alla filosofia della storia di matrice hegeliana, compresa quella marxista, che pretende di individuare una legge della storia individuata la quale i fatti si fanno corrispondere nel processo evolutivo verso il quale tenderebbe il progresso o il compimento della realtà storica: lo spirito per Hegel, la società senza classi per Marx. Per Aron è indispensabile per lo studio della storia fare ricorso a discipline che rispondono a precise formalità, ed è possibile inoltre osservare ricorrenze e correlazioni senza perdere di vista la decisione e la responsabilità di chi ha operato scelte strategiche e la casualità di certi eventi poiché non esiste una legge a cui possano obbedire i fatti della storia e le decisioni dei protagonisti. L’ideologia nasce proprio da questo tipo di imposizione fatta alla realtà attraverso una ricostruzione dei fatti tendente a giustificare le premesse stabilite a prescindere dai fatti. Vedi Raymond Aron, Introduction à la philosophie de l'histoire. (Essai sur les limites de l'objectivité historique), Gallimard, Paris 1948.
[4] Raymond Aron L’oppio degli Intellettuali, 1955, Cappelli Edizioni, p 61.
[5] op. cit., p. 31.
[6] op. cit., p. 65.
[7] op. cit., p. 66.
[8] op. cit., p. 66.

Nessun commento:

Posta un commento

Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

https://www.lospiffero.com/ls_ballatoio_article.php?id=3835 https://amzn.eu/d/85oEalG