0.2.1 - Il mito della rivoluzione
Ricorre, secondo Raymond Aron in modo costitutivo ed essenziale, una
dissociazione tra la realtà ideologica, a cui aderiscono gli interpreti della
rivoluzione, e la realtà storica, gli eventi sociali ed economici che si punta
radicalmente a cambiare. Questa distanza, tra la realtà dei fatti e le
convinzioni dei rivoluzionari, è indice, e misura, del motivo per cui le
rivoluzioni, nel lungo termine, tendono ad avere un andamento catastrofico
nonostante le migliori convinzioni dei protagonisti. Da questa idea, base delle
sue riflessioni sulla storia e la storiografia, si evince come per Aron i fatti
oggettivi, economici, sociali, naturali, le scoperte, le invenzioni, la
scienza, la tecnica, ecc., si intreccino con le decisioni e le convinzioni dei
protagonisti che sono egualmente responsabili dei risultati a cui le società
pervengono, nel bene e nel male, senza che ciò possa essere predeterminato da
leggi oggettive che possano indicare l’evoluzione del percorso storico
dell’umanità.
Aron considera le rivoluzioni nella
modernità non come veri momenti di “cambiamento”, ma come rovesciamenti operati
da élites contro altre élites; fenomeni che sono «sintomo di
crisi e di contraffazione dello spirito progressista»1 e del cambiamento degli equilibri
sociali e istituzionali precedenti. I regimi sono caduti e continueranno a
cadere, ma ciò non per i vizi morali e le ingiustizie subite dai ceti subalterni,
come prospetta la propaganda dei rivoluzionari. I regimi sono caduti e cadono
invece perché non sanno dare risposte politiche capaci di aprire prospettive di
riforma e di “cambiamento” negli equilibri sociali ed economici verso cui
spinge il progresso.[1]
La caduta violenta di quei regimi
incapaci di dare risposte alla domanda di cambiamento, spesso non ha
rappresentato una risposta a queste esigenze.
Infatti, le rivoluzioni, nel lungo termine, non hanno mai storicamente
rappresentato la nascita di un mondo migliore e nuovo nei rapporti e nelle
relazioni sociali; non hanno saputo coniugare “il cambiamento con il progresso”;
mentre sono sempre finite sempre col tradire le premesse di giustizia da cui
sono partite. In tal senso, le rivoluzioni, non sono da considerare veri segni
di cambiamento dei sistemi sociali. Al contrario, l’affacciarsi dei fenomeni
rivoluzionari e dell’instabilità politica e costituzionale, va colto come segno
di malattia di un sistema sociale e non di salute e di nascita del nuovo.
Le rivoluzioni hanno il solo e
preminente effetto di attivare una circolazione tra le élites al potere, più che la realizzazione di un nuovo sistema o
stato della società: «al crollo dei troni e delle repubbliche, la conquista
dello stato da parte di minoranze attive, non hanno sempre coinciso con un
sovvertimento delle istituzioni, né nel passato né ai nostri giorni.»2 La Francia ha conosciuto nel corso del
XVIII più eventi rivoluzionari, ma nessuna di queste è riuscita a realizzare
quelle riforme riconosciute necessarie da quasi tutte le menti più illuminate.
Riforme in grado si seguire le
tendenze espansive dei diritti e del benessere della società (entitlements
e provisions) sono state realizzate invece in paesi quali l’America o
l’Inghilterra attraverso trasformazioni effettuate nella continuità della
legalità costituzionale; riforme che hanno dimostrato di essere il migliore
interprete delle istanze dell’Illuminismo e della società moderna fondate sullo
stato di diritto e sulla democrazia propense alla edificazione della civiltà
industriale e capaci di realizzare una sempre migliore distribuzione dei
benefici del progresso scientifico e della tecnica. Sistemi “aperti”, per così
dire, che per secoli hanno saputo salvaguardare la loro tradizione istituzionale
saldamente ancorata ai valori liberali della società moderna, che, avendo
sempre saputo interpretare le esigenze di rinnovamento e di cambiamento, non
hanno mai vissuto momenti traumatici nel corso della loro storia.
Per Aron la sinistra non è rivoluzionaria
se si scrutano i principi storico sociali della sua affermazione come cultura
politica e quindi istituzionale. Il fatto che Marx si fosse trasferito in
Inghilterra attesta da una parte l’idea di oggettività che Marx attribuiva alla
sua interpretazione del progresso sociale in sintonia con una filosofia della
storia di tipo hegeliano e teleologica, pertanto chiusa e distante da istanze
di tipo volontaristico. L’idea rivoluzionaria presuppone invece l’intervento
volontaristico e ideologico anche nel senso deteriore che Marx attribuiva alla
ideologia. In sostanza Marx non può essere considerato un “marxista
rivoluzionario” ma piuttosto uno scienziato sociale dell’ottocento che riteneva
di avere individuato una chiave di interpretazione oggettiva e rispondente a
leggi ben definite del corso delle vicende umane. Una interpretazione che parte
da una forma centrale di umanesimo per scaturire in una filosofia della storia
fondata univocamente su una presunta legge della dinamica sociale. Anche per
quanto riguarda i sostenitori dell’illuminismo si confidava in un cambiamento
considerato come liberazione innanzi tutto dal pregiudizio e dalla
superstizione e su questa via aprirsi ad una nuova prospettiva umana di
progresso e illuminazione.
Proprio per questa sua caratteristica
intrinseca, il mito rivoluzionario, orientato più alla distruzione che alla
costruzione, non è da ricondurre alle aspirazioni politiche della sinistra progressista
che sono orientate a considerare e l’avvenire in modo ottimistico e costruttivo.
Infatti, per la sinistra, più che la rivoluzione, si può dire piuttosto che è
il progresso, come già lo individua Marx nel Manifesto, l’espansione
delle capacità produttive, il vero obiettivo da perseguire e la chiave della
storia, più che il rovesciamento delle istituzioni e delle Stato. Secondo Aron il
mito della sinistra contiene implicitamente l’idea del Progresso e apre la
prospettiva di un moto continuo. Il mito della Rivoluzione per la sinistra
marxista (formatosi successivamente a Marx) ha un significato complementare e
opposto: nutre l’attesa di una rottura con le vicende umane di ogni giorno: «I
rivoluzionari – dice Aron - sono riconoscibili dal loro odio contro il mondo e
dalla loro mentalità catastrofica»[2].
Inoltre bisogna considerare che nella
valutazione degli storici, quello rivoluzionario è un mito che è frutto di una
riflessione retrospettiva, costruita ad hoc per giustificare le premesse del
presente politico con gli eventi del passato.[3]
Se si rinuncia a questa lettura dottrinale del passato parrà chiaro come, nella
stessa Francia del XVII secolo, anche coloro che, secondo il senso dato dagli
storici, sembravano aver preparato la grande Rivoluzione mediante la diffusione
di una mentalità illuminata e incompatibile con quella dell’Ancienne Régime,
non annunziavano né caldeggiavano il crollo apocalittico del vecchio mondo.
Quasi tutti quegli audaci teorici “rivoluzionari” mostravano, al contrario, grande
prudenza accreditandosi spesso come consiglieri del Principe o del legislatore.
La medesima prudenza che usava Jean-Jeaques Rousseau, oggi considerato precursore
dell’egualitarismo giacobino e della rivoluzione.
Durante l’Illuminismo,
intellettuali e teorici del cambiamento, non propendevano per la catastrofe
rivoluzionaria, ma, al contrario, inclinavano quasi tutti all’ottimismo in
vista di una nuova società: appena fossero tolti di mezzo i pregiudizi,
fanatismo, appena l’umanità fosse stata illuminata, l’ordine naturale della
società più libera e giusta sarebbe stato realizzato. Infatti, dal 1792 in poi,
la Rivoluzione fu considerata dai contemporanei, filosofi inclusi, come una
catastrofe. Ma con la successiva acquisizione di una prospettiva storica
tendente a dare fondamento e legittimità al nuovo regime, si finì per perdere
il senso della catastrofe e per celebrare soltanto la grandezza
dell’avvenimento, interpretatolo in chiave di slancio tendente alla liberazione
degli uomini e all’organizzazione razionale della collettività anche attraverso
la conquista del potere realizzata attraverso il sovvertimento violento.
Tali giustificazioni hanno
contribuito a far giustificare la stessa violenza tanto da fondare un mito e
una fede nella potenza sovvertitrice della massa rivoluzionaria, unica forza
capace di foggiare l’avvenire.[4]
Un mito che oggi rappresenta un potente oppio per una certa politica
continentale.
Ogni rivoluzione si è presentata
alla storia con lo schema che vede a una fase distruttiva e nichilista,
corrispondere una costruttiva che riguarda i passaggi per la costruzione del
nuovo e del cambiamento prospettato. Tuttavia, dice Aron le fasi della
“rivoluzione costruttiva” non esigono per forza di cose il ricorso o il
passaggio attraverso una “rivoluzione distruttiva”: «nulla impedisce – come
accaduto in altre realtà istituzionali - di pensare che anche la monarchia potesse
introdurre a poco a poco gli elementi essenziali di ciò che a distanza ci
appare opera della Rivoluzione. Ma le ideologie che animavano la Rivoluzione
travolsero la mentalità sulla quale la monarchia era fondata, pur senza essere
a rigore incompatibili con essa; [e così] suscitarono quella crisi
legittimistica che produsse la grande peur e il Terrore»[5]
Le rivoluzioni sociali che si
manifestano con una carica distruttiva e iconoclasta non è detto che seguano le
forme “rivoluzionarie” del progresso, almeno quello prospettato e auspicato da
filosofi e intellettuali illuministi, nel processo di affrancamento dell’essere
umano dai vincoli della natura e di sviluppo della conoscenza. In tal senso è
spesso storicamente accaduto che ciò che nelle attualità viene considerato come
nuovo e rivoluzionario, alla prova dei fatti, può trovarsi in contrasto con le
istanze portatrici del progresso dell’umanità.
Dall’altro lato niente indica che
per vedere attuate, e rendere disponibili al maggior numero di individui, i vantaggi
e il miglioramento delle condizioni provenienti dalle conquiste del progresso
dell’umanità, sia necessario che si realizzino dei moti violenti e distruttivi
delle istituzioni.
Nella realtà storica l’unico
meccanismo oggettivo che è possibile riscontrare è soltanto quel lento e
costante processo di cambiamento che intreccia lo sviluppo della conoscenza con
la crescita della società e delle relazioni sociali, quello che viene cioè
definito come “progresso”. Le rivoluzioni, al contrario, non seguono mai la
traccia segnata dal progresso. Questa traccia la segue invece il riformismo.
Le vicende rivoluzionarie portano
sempre ad un potere totalitario e tirannico: «Un potere rivoluzionario è per
definizione un potere tirannico. Viene esercitato in contrasto con le leggi,
esprime la volontà di un gruppo più o meno numeroso, si disinteressa e deve
disinteressarsi degli interessi particolaristici di questa o quella frazione
del popolo. La fase tirannica dura più o meno a lungo, a seconda delle
circostanze, ma non si riesce mai ad evitarla – o, più esattamente, quando si
riesce, si ha riforma e non rivoluzione. La conquista e l’esercizio del potere
con mezzi violenti presuppongono conflitti non risolti mediante trattative o
compromessi; in altre parole il fallimento dei metodi democratici. Rivoluzione
e democrazia sono nozioni contraddittorie.»[6]
«La paralisi dello Stato, la
consunzione della classe dirigente, l’anacronismo delle istituzioni rendono
talvolta inevitabile e talvolta desiderabile il ricorso alla violenza da parte
di una minoranza.»[7]
Ma l’uomo ragionevole, l’uomo di sinistra in particolare – dice Aron -
«dovrebbe preferire la terapia alla chirurgia e le riforme alla rivoluzione,
come deve preferire la pace alla guerra e la democrazia al dispotismo.»[8]
Per Aron, il discrimine tra destra
e sinistra non è da porre sulla linea di richiamo moralistico ad una missione
rivoluzionaria e palingenetica. Infatti, il ‘900 ha dimostrato che il termine
“rivoluzione” e “rivoluzionario” può anche connotare una destra che prospetta
un cambiamento in chiave conservativa e di chiusura che utilizza in modo
socialmente escludente e limitato i risultati della modernità, orientandoli
alle finalità aggressive del nazionalismo, come è stato negli anni venti del
secolo scorso.
Il discrimine diventa quindi quello
tra i valori del progresso e della società aperta, fondata sulla democrazia e
lo stato di diritto, nata dalla modernità delle due rivoluzioni; oppure
l’utilizzo dei risultati del progresso stesso ai fini di una affermazione
autoritaria e illiberale: in questa chiave troviamo regimi di “sinistra” che
non si distinguono da quelli di “destra” se non per una autocelebrazione
ideologica. Si tratta di regimi che negano la democrazia e i diritti civili
mentre declinano in chiave di chiusura esclusiva i valori della uguaglianza
rigettando i valori della libertà. E anche nella valutazione politica diventa
molto più complicato distinguere tra politiche di “destra” o di “sinistra” se
lo spartiacque non è più di tipo moralistico ma di collocazione rispetto ai
temi del progresso e dello sviluppo.
È evidente in Aron l’idea
di fondo, “erasmiana”, che lo accomuna a Popper, a Sen, che lega libertà, stato
di diritto, democrazia e giustizia sociale con il progresso scientifico e la
modernità, lo sviluppo della tecnologia e il mercato. In fondo l’errore dei
rivoluzionari è pensare di poter perseguire i benefici del progresso
rinunciando alla democrazia e alla libertà costruiti sullo stato di diritto e
sulla rappresentanza, una idea che si è dimostrata fallimentare e catastrofica.
[1]
Quando Aron parla di “progresso” si riferisce a tutto ciò che è concretamente
misurabile come espansione della produzione economica, realizzazione di
infrastrutture e crescita della società in termini di miglioramento delle
condizioni di vita dovute alle scoperte scientifiche ed alle tecnologie e
quindi anche la crescita demografica. Quindi niente di “filosofico”!
[3]
In questo concetto si esprime indirettamente la critica alle ricostruzioni
storiografiche ispirate alla filosofia della storia di matrice hegeliana,
compresa quella marxista, che pretende di individuare una legge della storia individuata la quale i fatti si fanno
corrispondere nel processo evolutivo verso il quale tenderebbe il progresso o
il compimento della realtà storica: lo spirito per Hegel, la società senza
classi per Marx. Per Aron è indispensabile per lo studio della storia fare
ricorso a discipline che rispondono a precise formalità, ed è possibile inoltre
osservare ricorrenze e correlazioni senza perdere di vista la decisione e la
responsabilità di chi ha operato scelte strategiche e la casualità di certi
eventi poiché non esiste una legge a cui possano obbedire i fatti della storia
e le decisioni dei protagonisti. L’ideologia nasce proprio da questo tipo di
imposizione fatta alla realtà attraverso una ricostruzione dei fatti tendente a
giustificare le premesse stabilite a prescindere dai fatti. Vedi Raymond Aron, Introduction à la philosophie de
l'histoire. (Essai sur les limites de l'objectivité historique), Gallimard,
Paris 1948.
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