martedì 13 novembre 2018

Pensiero sé-centrico e passioni distruttive. Tra Buddhismo e Costruttivismo

Due concezioni della realtà che presentano importanti risvolti etici nell’idea di responsabilità che implicano un profondo interesse per le pratiche di vita che possono migliorare la condizione umana, dalla sofferenza individuale a quella sociale, dall’educazione alla ricerca. Un interesse che si traduce in una condotta etica, definita come responsabilità relazionale improntata all’apertura verso il mondo, alla collaborazione, al rispetto dell’altro


"Le idee sbagliate scaturiscono dal nostro sentimento di un'intrinseca esistenza di sé. A causa di questo noi ignoriamo gli altri... Questo è dovuto al fraintendimento del sé. È come avere un diabolico assassino dentro di noi. Il pensiero sé-centrico porta con sé il desiderio, l'avversione e l'ignoranza, è come un ladro che ci defrauda del nostro raccolto di virtù.

I semi della coscienza sono piantati nei campi dell'azione. Questi sono irrigati ripetutamente dalle acque del desiderio e della bramosia da quel contadino che in noi coltiva i germogli degli stati di rinascita. Anche questo è causato dal nostro atteggiamento sé-centrico." (Dalai Lama)

"A causa del sé-centrismo che è in noi, siamo rimasti nudi, a mani vuote e indolenti. Ovunque ci troviamo nel ciclo dell’esistenza, siamo assaliti dalla sofferenza. Chiunque frequentiamo è un amico della sofferenza. Qualsiasi cosa di cui godiamo è un oggetto di angoscia. … Non sapendo ciò che è positivo e ciò che non lo è, nutriamo inutili dubbi e aspettative a causa del nostro sé-centrismo.”

"come un cavallo senza briglie, le nostre emozioni perturbatrici ci fanno perdere il controllo, tutto a causa del nostro atteggiamento sé-centrico." (Dalai Lama)

“Il sé-centrismo è la fonte della nostra paura … il sé centrismo è la fonte di tutte le colpe.”

“Tutte le nostre sventure scaturiscono dalla nostra mente indisciplinata. La mente è sregolata a causa del nostro sé-centrismo. … Il sé-centrismo genera una miriade di emozioni come speranza e ansia a causa delle quali andiamo incontro a fallimenti e calamità. Normalmente puntiamo il dito sugli altri, incolpandoli di tutto ciò che non funziona. Ma la radice del problema, la fonte di tutti i guai, l’origine degli inauspicabili e cattivi segni è l’atteggiamento sé-centrico che risiede indisturbato nei nostri cuori.”

“La bramosia e l’odio … scaturiscono da una percezione esagerata di noi stessi come entità indipendenti, mentre, di fatto, dipendiamo da un gran numero di variabili passate e presenti.”[1]

“Quando arrivi all'errata conclusione di esistere come un’entità pienamente indipendente (anziché come un’entità interrelata con gli altri e con le cose), se portato a stabilire una distinzione artificiale tra te e gli altri. A sua volta, questa conclusione favorisce l’attaccamento a tutto ciò che sembra stare dalla nostra parte e la resistenza nei confronti di tutto ciò che sembra stare dalla parte degli altri. Questa forma di attaccamento ingigantisce l’importanza delle tue caratteristiche personali, quali l’aspetto fisico, l’origine etnica, la ricchezza, l’educazione o la fama, e spalanca la porta all’orgoglio.”[2]

Questa considerazione del Dalai Lama è quanto di più prossimo e concomitante vi possa essere nella concezione buddhista del “”, con la concezione costruttivista. Bisogna mettere tra parentesi l’aspetto religioso se questo è finalizzato ad una costruzione ontologica delle istanze trattate, infatti ciò condurrebbe alla formulazione di una metafisica che informa la realtà ad una rigida concezione del mondo e della mente. Ma se invece si considera quanto affermato dal Dalai Lama come manifestazione dell’esistenza mentale del “”, esistenza che non può essere considerata se non in forma di una interrelazione col l’”altro” e il mondo delle cose, una interrelazione che precede la formazione della coscienza e la rende possibile nella costruzione del linguaggio e della consapevolezza stessa che si realizza attraverso l’atto di intenzionale con cui il prende di mira la realtà oggettiva e l’altro; allora, se trasliamo la concezione buddhista nell’ambito del cognitivismo costruttivista, abbiamo un modalità per considerare l’intreccio che forma e modella la personalità e la coscienza attraverso il condizionamento e lo sviluppo delle emozioni che vanno a strutturare il carattere e la nostra persona, cioè la “maschera” con la quale il si presenta agli altri e al mondo.

Inoltre, questo modo di considerare la l’origine delle emozioni negative, consente di definire quell’elemento che manca per prendere considerazione una un migliore approfondimento degli aspetti della comunicazione nei conflitti per valutare la spirale delle emozioni negative che portano all’escalation della violenza.

La meditazione del Dalai Lama è in questo caso rivolta all’origine delle “passioni tristi” e della violenza: “Sia la bramosia sia l’odio arrivano da un errore sistematico; entrambi si sviluppano sulla base di un’esagerazione della natura delle cose che va ben al di là di ciò che esse effettivamente sono. Tale errore genera tutte le altre emozioni perturbanti.”[3]

Le emozioni che si generano sulla base di questo errore sistematico, dice il Dalai Lama, errore cognitivo, diremmo, pensando al punto di vista costruttivista, che riguarda il sé-centrismo condizionano le nostre relazioni creando una contrapposizione artificiosa e una dinamica di conflitto permanente tra il sé e il mondo circostante sviluppando la triste passione della “rabbia”. Infatti, dice il Dala Lama, “là dove c’è un “io” c’è anche un “tu”. Alla discriminazione fa seguito l’attaccamento al nostro sé e la rabbia nei confronti dell’altro, poiché ci arrabbiamo con ciò che frustra i nostri desideri. La rabbia è fomentata dalla convinzione erronea che noi e l’oggetto della nostra rabbia siamo per natura in una relazione di vittima e nemico. Quando ci arrabbiamo, l’oggetto della nostra natura appare di gran lunga più spaventoso di quanto sia in realtà.”[4]

Per quanto riguarda il condizionamento e il danno morale causato dall'attaccamento, anche la dottrina cristiana, in particolare nella teologia di Meister Eckhart appare concordante con quella buddhista nella ricerca di una dimensione morale nella relazione col mondo improntata alla ricerca di una beatitudine fondata sul distacco e l’assenza del “desiderio” considerato origine della negatività. La teologia cristiana da Eckhart ad Erasmo sembra promuovere una idea di saggezza e che nasce, attraverso la meditazione e la riflessione sui desideri e sulle passioni, dalla forza delle emozioni positive considerate generatrici di valori morali ed etici che promuovono la similitudine tra l’uomo e Dio considerato come sommo bene.

“Quando ci imbattiamo per la prima volta in qualcuno o qualcosa di piacevole, ne prendiamo rapidamente nota, riconoscendo la sua presenza … l’attrattiva che l’oggetto esercita sembra parte integrante dell’oggetto stesso, e non un valore attribuito da noi”. La posizione del Dalai Lama è prossima al costruttivismo: la mente attribuisce valore alla realtà in modo indipendente dai fatti. Questo valore corrisponde con le aspettative che, se positive, suscitano emozioni positive come, se negative, oltre che già essere condizionate da emozioni negative quali ansia e paura, suscitano e rafforzano le emozioni negative diventando fonte di frustrazione e rabbia. La capacità di attenersi ad una valutazione “neutrale” dei fatti è funzionale alla capacità di valutazione e ponderazione delle emozioni che, in un primo approccio, suscita un oggetto o una situazione. E così di seguito il Dalai Lama “quando la mente aderisce in questo modo a un oggetto – come se la sua essenza coincidesse con la sua apparenza – , può sorgere una forte bramosia nei suoi confronti, e un odio nei confronti di tutto ciò che interferisce con la possibilità di impossessarsene. Ha preso piede un errore sostanziale riguardo alla natura delle cose e, a mano a mano che l’illusione dell’esistenza indipendente dell’oggetto si consolida, i veleni delle emozioni distorte cominciano a fare il loro effetto”[5]. Quindi il presupposto di una natura indipendente, il realismo metafisico della vita quotidiana, del senso comune e dell’opinione comune, come direbbe Watzlawick, sono la condizione che rende potente il “veleno delle emozioni distorte”.

Il “realismo metafisico” nasce dalla pi radicata tra le teorie della conoscenza, tanto che, come dice Hilary Putnam, i filosofi per due millenni avrebbero discusso soltanto su ciò che esiste realmente e sarebbero tutti stati d’accordo su un concetto di realtà che tutti intendevano collegato con il concetto di validità oggettiva, tanto che il concetto di verità si fa coincidere con quello di oggettività e il problema del sapere diventa il problema della verità. Realista metafisico è quindi “chiunque sostenga che possiamo chiamare verità solo ciò che è in accordo con una realtà oggettiva concepita come assolutamente indipendente.”[6]

A fronte di una concezione che considera la conoscenza come corrispondenza di una realtà di per sé esistente “il tratto fondamentale dell’epistemologia costruttivista – e cioè che il mondo, che in tal modo viene costruito, è un mondo dell’esperienza che consiste in esperienza vissuta e non ha nessuna pretesa di verità nel senso di consonanza con una realtà ontologica.” Una posizione in cui Giambattista Vico si incontra con Kant: “la natura … è l’insieme di tutti gli oggetti dell’esperienza”. Una concezione che supera l’oggettivismo come il suo opposto, lo scetticismo e spiega come sia possibile sperimentare un mondo relativamente stabile e attendibile pur non potendo attribuire con sicurezza alla realtà oggettiva stabilità, regolarità o una qualsiasi qualità percepita considerando che il mondo di cui facciamo esperienza e che conosciamo, viene necessariamente costruito da noi stessi. Per questo non ci si deve sorprendere se esso ci appare come relativamente stabile. [7] “La teoria della conoscenza diventa così l’esame del modo in cui l’intelletto opera per costruire il mondo in qualche misura durevole e regolare partendo dal flusso dell’esperienza.” La conoscenza è quindi anche un operare in quanto è l’agire che la costruisce. Ed è, come dice Piaget, l’operare di quella istanza cognitiva che organizza sé stessa e quindi il suo mondo dell’esperienza.[8]

Siamo di fronte a due tradizioni che sebbene siano distinte temporalmente e culturalmente considerano “l’infondatezza, intesa come mancanza di un fondamento assoluto, come la condizione stessa del mondo dell’esperienza umana.”[9] La “via di mezzo della conoscenza”, intesa come critica all’attaccamento e alla ricerca di un fondamento ultimo sia che lo si cerchi all’esterno della mente come fa l’assolutismo metafisico, che all’interno, come per il nichilismo; questa “via di mezzo” sembra alludere alla concezione costruttivista della conoscenza come concezione che trascende le concezioni realiste  come pure quelle idealiste indicando “una rotta che permetta di navigare indenni tra il vortice del solipsismo e il mostro del rappresentazionismo.” (Maturana – Varela)[10]. Si tratta di affinità che oltre alla concezione del sé non fondazionale e stabile ma che nasce dalla relazione in cui si forma lo stesso individuo. Una relazione che vede l’esperienza come un flusso, il dharma, considerato come la più piccola unità di esperienza che acquista significato nella rete di relazioni in cui appare. Come nel costruttivismo quindi, la persona è la manifestazione di un processo esteso di relazioni e non è mai un essere indipendente.

Una concezione presenta importanti risvolti etici nell’idea di responsabilità che implica quindi, in entrambe le concezioni “un profondo interesse per le pratiche di vita che possono migliorare la condizione umana, dalla sofferenza individuale a quella sociale, dall’educazione alla ricerca; un interesse che si traduce in una condotta etica, definita come “responsabilità relazionale” … improntata all’apertura verso il mondo, alla collaborazione, al rispetto dell’altro”.[11]

Infatti, è l’ignoranza responsabile dell’attaccamento, per il pensiero buddhista. È l’ignoranza che alimenta la convinzione erronea sulla positività o negatività intrinseca dell’oggetto che prendiamo in considerazione. “Accettare questa falsa apparenza come un dato di fatto è – sostiene il Dalai Lama – un atto di ignoranza e spiana la strada alla bramosia, all’odio e a una miriade di altre emozioni controproducenti. Tali emozioni distruttive portano, a loro volta, ad azioni fondate sulla bramosia e sull’odio. Queste azioni, che alla fine provocherano sofferenza, non vengono viste per quello che realmente sono, ma vengono scambiate per una via verso la felicità.”[12]

Il parallelo tra buddhismo e costruttivismo radicale diventa interessante anche per alcuni aspetti empirici, o meglio “pragmatici”, riguardanti la possibilità del trattamento della comunicazione nei conflitti. Infatti l’ignoranza che causa l’attaccamento può diventare presto conflitto e violenza. Infatti, dice il Dalai Lama, “fintanto che sono presenti la bramosia, l’odio, l’attaccamento, l’invidia o la confusione, ogni genere di azione nociva diventa possibile. Con questi presupposti, ciascuno di noi ha le potenzialità di fare il male, di commettere un crimine, persino un omicidio.” L’enfasi che alle relazioni aggiunge l’attaccamento fino alla promozione delle emozioni più distruttive: “ti arrabbi quando le persone non sono all’altezza delle tue aspettative” e attribuisci un eccesso di valore tanto ai nemici quanto agli amici. “Il problema è che spendiamo troppa energia in cose che sono altrettanto poco profonde delle banali faccende quotidiane. Ciò che è profondo perde terreno a vantaggio di ciò che è superficiale. Una volta che sei assorbito dai dettagli senza valore della vita, le emozioni affettive aumentano, e spingono a compiere altre azioni sbagliate. Le azioni controproducenti portano soltanto guai e, nella migliore delle ipotesi, mettono a disagio te e le persone che ti stanno intorno. Ti riempi sempre più di beni materiali, al punto che la pratica quotidiana si trasforma in devozione agli aspetti superficiali della vita, in cui coltiviamo desiderio per gli amici e odio per i nemici, e ci sforziamo di capire come comportarci in base a queste emozioni affettive”13

L'attribuzione di valori e qualità falsate dagli stati emotivo può essere contrastato attraverso la meditazione, o meglio, la riflessione: “il vantaggio dell’introspezione è quello di impedirci di attribuire ad un oggetto bontà o cattiveria oltre quelle che realmente sono presenti. Ciò consente di ridurre e forse, con il tempo di eliminare l’odio e la bramosia, poiché tali emozioni sono basate sull’esagerazione. E lascia alle emozioni e alle virtù lo spazio per svilupparsi”14

Le considerazioni del Dalai Lama mantengono una forte analogia con quelle che il pragmatismo di Watzlawick considera come veri loop delle relazioni umaneParadossi della comunicazione che strutturano la relazione in modo tale che ogni pratica risolutoria finisce per confermare i problemi in quanto nella impossibilità di costituirsi su di un linguaggio che si ponga al di fuori del contesto relazionale e comunicativo e al di fuori dei codici emozionali. Il paradosso porta il soggetto a comportarsi come il famoso Barone di Münchhausen, che pensava di sollevarsi dalla palude prendendosi per il codino. La meditazione buddhista come la destrutturazione delle relazioni promossa dalle pratiche costruttiviste, inducono il soggetto a porsi all’esterno del loop comunicativo e relazionale. 

“Se riteniamo che gli oggetti esistano in sé e per sé, anziché considerarli dipendenti da molte circostanze, come in realtà sono, si ha un’esagerazione”. Questa esagerazione è quella a cui inducono gli stati emotivi, tipo odio o un eccesso di attaccamento e bramosia verso l’oggetto; stati emotivi che limitano la nostra prospettiva e ci conducono alla chiusura mentale. Questi stati emotivi apparentemente ci appaiono come utili al perseguimento del nostro obiettivo, ma nei fatti non fanno altro che moltiplicare gli effetti negativi nel momento in cui sembrano essere ostacolati. In particolare nel caso della rabbia e dell’odio, queste condizioni si alimentano in un cerchio perverso di desiderio e di limitazione. “Nel momento in cui si generano la rabbia e la bramosia, la realtà viene oscurata e, al suo posto, scorgiamo bontà o cattiveria estreme, che suscitano azioni distorte e irreali.”15 
Avere consapevolezza di tale dinamica nelle relazioni “non significa che buono e cattivo, favorevole e sfavorevole, non esistano, poiché di fatto esistono, ma significa che non esistono come qualità indipendenti, come appaiono invece a una mente piena di bramosia e di odio.”16 Le argomentazioni sono volte a dimostrare l’interdipendenza dei fenomeni, ma, in affinità con il costruttivismo, non si tratta di una interdipendenza metafisica, ma dipendente dall’orizzonte di esperienza concettuale in cui ci troviamo ad agire. Il buddhismo parla di ”nesso tra le cause” attraverso il karma. Si potrebbe dire, della ”materia oscura” o "energia oscura" che tiene insieme l’universo, o gli universi, della nostra esperienza e delle relazioni. 
Il problema che le amozioni afflittive limitano le possibilità di espressione della compassione. La compassione è una forma di disposizione che nasce come risultato della predisposizione positiva delle emozioni e delle virtù.  Quando siamo in grado di considerare l’interrelazione e di valutare la mancanza di sussistenza oggettiva di ciò che in realtà attribuiamo all’oggetto sotto l’influsso delle emozioni, si apre la strada alla comprensione e alla compassione: “Non appena consideriamo l’interrelazione e perciò l’interdipendenza delle cose, diventa ovvia la falsità della visione che conduce alle emozioni afflittive” Per considerare la realtà della situazione bisogna evitare di sottomettere il proprio giudizio e “di sottomettersi volontariamente alle emozioni distruttive, perché offuscano la verità in ogni e qualsiasi campo... Bramosia e odio sono semplicemente irrealistici.”17 
Le emozioni distruttive portano al paradosso analogamente a quelle che Watzlawick considera patologie della comunicazione che causano il problema relazionale e, nei casi più estremi, psicologico e addirittura, psichiatrico. “Quando le emozioni distruttive dominano la scena – dice il Dalai Lama -, è più difficile comprendere che la situazione dipende da una moltitudine di circostanze correlate e, di conseguenza, ancora più difficile capire come cambiarla. Se odio e bramosia sono assenti, al contrario la rete di interconnessioni è assai più facile da scorgere.” E in definitiva ciò che si intende promuovere è il “cambiamento”. “Cambiamento” che per l’approccio della terapia breve di stampo costruttivista vuol dire cambiamento nella relazione e cambiamento cognitivo; mentre per il buddhismo il cambiamento è legato ad una prospettiva etica e di valore anche religioso. “La possibilità di porre fine ai nostri guai – dice ancora il Dalai Lama – dipende dalla capacità di comprendere l’interdipendenza, che i buddhisti chiamano “sorgere-dipendente”. La percezione erronea [un fatto cognitivo, pertanto] che persone e cose esistano in sé e per sé dà origine a pensieri sbagliati che, a loro volta, generano le emozioni nocive della bramosia e dell’odio, in un ciclo che si perpetua quasi all’infinito. Le emozioni distruttive producono azioni alterate e tali azioni lasciano impronte nella mente [altro fatto cognitivo che si spinge oltre il cognitivismo fino alla concordanza con la più recente considerazione della cosiddetta “plasticità del cervello” che appare come un ponte tra scienze neurali e cognitive], che portano a reiterati cicli di dolore. Possiamo mettere fine al processo coltivando la consapevolezza della subordinazione, della dipendenza e dell’interconnessione.18 





[1] Dalai Lama, L’arte della pace interiore, cap. IV. Ci mettiamo nei guai da soli, p. 1/8
[2] Dalai Lama, Ibidem.
[3] Dalai Lama, Ibidem.
[4] Dalai Lama, Ibidem, 2/8.
[5] Dalai Lama, Ibidem.
[6] Ernst von Gasersfeld, Introduzione al costruttivismo radicale, in La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, a cura di Paul Watzlawick, p. 19.
La differenza tra la concezione tradizionale della conoscenza e il costruttivismo sta nel rapporto tra conoscenza e realtà “Mentre la concezione tradizionale, nella teoria della conoscenza nonché ella psicologia cognitiva, considera sempre questo rapporto come una concordanza o corrispondenza più o meno d’immagine (iconica), il costruttivismo radicale lo vede come un adeguamento al senso funzionale.” Ibidem p. 20.
[7] Ibidem, p. 27.
[8] Ibidem, p. 29.
[9] Gabriele Chiari, Il costruttivismo in psicologia e psicoterapia. Il caleidoscopio della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016, p. 116.
[10] G. Chiari, ibidem, p. 115-116.
[11] G. Chiari, ibidem, p. 117.
[12] Dalai Lama, ibidem, p. 4/8.
[13] Dalai Lama, ibidem, p. 6/8.
[14] Dalai Lama, ibibem, p. 7/8.
[15] Dalai Lama, L’arte della pace interiore, V. Smarrire la giusta prospettiva nelle situazioni impegnative, p. 3/8
[16] Dalai Lama, ibidem, 
[17] Dalai Lama, ibidem, p. 5/8.
[18] Dalai Lama, ibidem, p. 7/8.


venerdì 9 novembre 2018

Erasmiani 0.1 - Temperantia e politica delle passioni

Temperantia, cioè la moderazione, per chi ha responsabilità pubbliche vuol dire ... ricerca della verità e pretesa della libertà.



«La moderazione (Temperantia) – dice Dahrendorf - … ci trasporta nel pieno della vita. Essa riguarda il modo di porsi degli uomini nei confronti del mondo.»1
La virtù della moderazione si realizza come conciliazione e superamento della dicotomia tra vita activa e vita contemplativa che già la dottrina classica voleva in contrapposizione. Quando Weber parlava di etica della responsabilità ed etica dei principi intendeva che tra l’ispirazione ad una vita volta all’agire sociale (etica della responsabilità) ed una ispirazione ad una vita volta alla conoscenza e all’esercizio del sapere scientifico (etica dei principi) non esista una possibilità di conciliazione, ma un conflitto: o si è votati all’una o all’altra attività, la commistione tra le due etiche genera equivoci e contraddizioni.
Al contrario, per Dahrendorf, la virtù della Temperantia si realizza proprio dalla convergenza tra le due aspirazioni e dall’unione delle due etiche in un unico principio ispiratore del proprio essere. Infatti, le due etiche rimangono inconciliabili nella teoria, tuttavia esse possono essere conciliate nella prassi.
Dahrendorf utilizza un concetto marxiano che potrebbe consentire di rendere tanti aspetti di questa filosofia come “filosofia della prassi” del cosiddetto a-rovesciamento marxiano secondo cui si tratta di cambiare il mondo che i filosofi interpretano, alla filosofia della libertà. Ma questa conciliazione, al contrario di come pensava Marx, non si realizza in una prassi rivoluzionaria; ma si realizza come parte costitutiva di un atteggiamento che riguarda l’individuo umano in quanto “osservatore impegnato”, e anche se nella realtà riguarda l’intellettuale, ciò riguarda la capacità di chiunque intenda occuparsi di problemi pubblici.
Questa conciliazione si realizza come congiunzione tra l’osservatore e l’attore in un solo individuo, laddove la sua attività riesce a conciliare la scienza come campo della riflessione con la politica come campo proprio dell’azione, una conciliazione che si realizza nella dimensione in cui entrambi gli ambiti si colgono attraverso un approccio di sviluppo teorico che si esprime attraverso un agire empirico che funziona anche come verifica di una ulteriore riflessione teorica. In questo senso le due etiche di colui che si vota per la conoscenza e colui che assume la via della responsabilità si uniscono in un unico individuo.
La moderazione è l’ambito proprio di realizzazione di questa prassi nel senso in cui essa riguarda il modo di porsi degli uomini nei confronti del mondo. La moderazione in questo senso «è l’impegno interiore che si ritrae dall’agire e cerca nell’osservare una realizzazione che esso, in fondo, non può dare.»2 Questa virtù si realizza come quella forte e a volte insopportabile tensione tra l’azione e la conoscenza della realtà che si manifesta nell’”osservatore impegnato”. Essere osservatore impegnato di fronte alla storia che si compie giorno per giorno nelle vicende umane e negli avvenimenti delle società significava per Aron, rispetto a questa realtà “essere … quanto più possibile oggettivo e insieme non del tutto distaccato, a impegnato.”
In questo contesto impegno «significa prima di tutto intima partecipazione alla realtà che viene osservata … L’osservatore impegnato … si mantiene sul terreno di una partecipazione [ai fatti] che per intensità non è inferiore a quella degli attori». Questa partecipazione per l’osservatore impegnato non esaurisce il suo atteggiamento di fronte alla realtà. L’impegno formale non è tutto poiché «l’osservatore impegnato è in misura particolare votato alla verità». E ancora «oltre alla ricerca della verità, l’osservatore impegnato esige la libertà»3. Moderazione, Temperantia, vuol dire quindi ricerca della verità e pretesa della libertà.
Per Erasmo la temperanza, la saggezza, è una fondamentale virtù del Principe: “non manca chi pensa addirittura che la saggezza sia da ostacolo al principe. La forza dell’animo così si impigrisce, dicono, e il principe diviene pauroso. Ma quella di cui parlano è temerarietà, non coraggio: è stupidità, non forza d’animo, il non temere nulla per il fatto che non si è in grado di giudicare. La forza del principe deve derivare da altre sorgenti. In quel modo sono bravi a dimostrarsi audaci i giovani, in particolare i più furiosi. La timidezza, al contrario, è benefica, perché, mentre individua il pericolo, insegna anche a scansarlo e così si rivela un deterrente dalle decisioni sbagliate e arrischiate. Occorre che veda più di tutti colui il quale, da solo, vede per conto di tutti; occorre che sia più saggio degli altri colui il quale, da solo, decide per conto della comunità. Ciò che è Dio nell’universo, il sole nel mondo, l’occhio nel corpo: ecco cosa deve essere il principe nello stato.”

In un primo confronto tra Erasmo, come precursore di un illuminismo dal volto umano e Machiavelli quale precursore della fredda razionalità politica responsabile del dispotismo – e il cui pensiero, quindi, finisce col negare gli stessi valori della ragione che pensava di realizzare, valori negati per il fatto di porsi il problema della libertà e del libero arbitrio – possiamo dire che per Machiavelli vir bonus e princeps sono figure difficilmente sovrapponibili: ciò che conta è che il principe eserciti le virtù che rinsaldano il potere, non curandosi troppo delle virtù che non hanno a che fare con la politica. Per Erasmo, al contrario, può anche essere che una persona per bene non sia in grado di fare il principe, perché non è detto che il virtuoso abbia anche le capacità necessarie per governare; ma senza dubbio il buon principe non è tale se non è anzitutto vir bonus.
Quindi nella virtù della riflessione e dell’impegno, nella saggezza, cioè nella temperantia, si supera la dicotomia della modernità tra vita attiva e vita contemplativa, tra lavoro e attività intellettuale, tra laici e chierici, tra scelta razionale e scelta morale, tra politica considerata come campo del puro intuito finalizzato al potere sull’altro e politica come promozione dei valori della libertà. La temperantia è un valore fondamentale per una politica delle passioni (che non è soltanto passione politica!)

1 Ralf Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo. Laterza Bari 2007, p. 62.
2  Ibidem, p. 62
3  Ibidem, p. 65.

domenica 4 novembre 2018

Progresso, democrazia e libertà

A fronte di un movimento – partito politico che ha raggiunto un terzo dei consensi e ha posto come obiettivo della propria attività la “decrescita”, bisogna allora interrogarsi su cosa sia o siano stati la “crescita” e il “progresso” e se possano avere un senso ancora oggi. 

Cominciamo da Dahrendorf con la citazione di una citazione di fantasia per spiegare gli obiettivi del volume Il conflitto sociale nella modernità1: 
“La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Il presente libro è stato scritto sotto l’impressione di un terrore quasi religioso sorto nell’anima dell’autore alla vista di questa irresistibile rivoluzione che ha avanzato per tanti secoli atterrando ogni ostacolo e oggi ancora procede in mezzo alle rovine da essa stessa prodotte. Quando il potere regio appoggiandosi sull’aristocrazia governava incontrastato i popoli d’Europa, la società pur in mezzo alle miserie godeva di parecchi vantaggi che difficilmente si possono concepire e apprezzare ai nostri giorni. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale. Ha affogato i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco. Invece noi, abbandonando lo stato sociale dei nostri avi, gettandoci dietro le spalle le loro istituzioni, i loro costumi, le loro idee, che cosa vi abbiamo sostituito? Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di stabile, è profanata ogni cosa sacra. Uomini religiosi combattono la libertà mentre amici della libertà combattono le religioni; spiriti nobili e generosi vantano la schiavitù e anime basse e servili preconizzano l’indipendenza; cittadini onesti e colti sono nemici di ogni progresso mentre uomini senza patriottismo e senza costumi si fanno apostoli della civiltà e della scienza.” 
Dahrendorf in questo “artefatto” testuale ha messo insieme frasi tratte dal Manifesto di Marx e dalla Democrazia in America di Tocqueville. Il testo fa emergere il conflitto tra la società preindustriale e l’avvento della società moderna attraverso il progresso dello sviluppo della tecnica. Marx e Tocqueville si erano posti lo stesso problema relativo al progresso, ma mentre il promo non si poneva in problema della libertà e della democrazia, il secondo considerava la libertà e la democrazia come imprescindibile rispetto ai valori. Il progresso e la tecnica non hanno bisogno della libertà per imporre il loro modello, infatti le dittature del XIX secolo sono state dalla parte del progresso ed espressione di una certa cultura futurista, finché questa non sconfinava nell’astrattismo. L’astratto è sospetto come l’individuo che vuole mantenere la propria indipendenza a fronte delle manifestazioni del regime. Individualità vuol dire libertà di coscienza e questo mette a rischio il potere. Non esistono valori se non c’è l’individuo e la libertà individuale, il mondo può essere portato avanti da una tecnica che sia questa attività degli scienziati o della burocrazia statale. Tocqueville vedeva nella tradizione la culla dei valori che dovevano essere preservati per poter avere una democrazia che fosse anche una istituzione per l’esercizio delle libertà e della ricchezza di una coscienza individuale liberata dai vincoli della società feudale. Marx poneva l’accento sulla “liberazione delle forze produttive”, credeva ad un progresso infinito che avrebbe realizzato la “liberazione della storia” dai vincoli delle classi, il proletariato sarebbe stata la non- classe che avrebbe abolito tutte le classi sociali realizzando la società libera. Marx non si poneva il problema delle istituzioni e della democrazia, la liberazione sarebbe dovuta avvenire per la realizzazione di un fatto tecnico relativo al progresso. Questa è stata una filosofia della storia che si è combinata con le interpretazioni politiche del marxismo con il risultato analogo a quello di tutte le dittature del secolo XIX. Infatti, l’annientamento della istanza individuale in nome di una volontà superiore, fosse questa la legge della storia, la nazione, lo stato o il progresso porta alla medesima conseguenza: l’abolizione della libertà e la realizzazione di una società priva di valori morali in cui domina la legge della razionalità del fine. 
Da queste considerazioni si evince: la sinistra marxista è progressista; il progresso non coincide per forza con la libertà, come vorrebbe una certa concezione acritica delle istanze dell’illuminismo. Quindi il problema della libertà e delle istituzioni percorre in parallelo la storia umana e non è riducibile direttamente al progresso della tecnica o del pensiero scientifico, anzi, al contrario, può entrare in conflitto con questultimi come dimostrano i movimenti politici contemporanei. 
I valori dell’Illuminismo hanno rappresentato l’ideologia di un’epoca nuova per la quale la tradizione era un ostacolo, Il nuovo mondo borghese era avversato dai contadini tradizionalisti come pure, in genere, dalle donne, che non vedevano con buon occhio l’avvento di un mondo in cui predominava l’elemento della laicità e dell’uomo attraverso il lavoro. Al contrario accadeva per gli operai e gli artigiani specializzati che vedevano la tradizione come luogo di miseria e di frammentazione e che vedevano il loro posto nel futuro e non in un qualche mondo idealizzato del passato. 
“Nondimeno - dice E. J. Hobsbawn -, le classi lavoratrici erano interessate alla nuova ideologia non in quanto tale, ma come parte di un pacchetto comprendente la lotta per una vita migliore”. 
La nuova ideologia e il nuovo mondo nato dall’illuminismo nascono quindi da un tacito accordo tra quelle che una rigida interpretazione vuole rappresentare unicamente come classi con interessi contrapposti, riflesso della contrapposizione tra capitale/proprietà e lavoro. Un accordo che oggi, a fronte del riemergere delle ideologie anti moderne, costituisce un elemento fondamentale da prendere in considerazione per un patto che riguardi la costituzione di base, la “società di base” come direbbe Rawls, sulla quale edificare la costituzione politica della società moderna. 
Ed è già proprio Hobsbawn ad individuare gli elementi costitutivi della “società di base”. Infatti, prosegue Hobsbawn, “dal punto di vista ideologico, quindi, le idee razionalistiche borghesi e quelle socialiste convergevano... Le due correnti erano collegate non solo da un’ideologia comune, ma dalla fede che questa sottendeva – la fede nel progresso, nell’istruzione, nella scienza e nella necessità di superare una tradizione che era di ostacolo alla liberazione personale non meno che a quella collettiva.”1 
Dalle possibilità di realizzazione di una “società di base” una costituzione fondamentale su cui edificare il “conflitto” democratico, possiamo dire che esiste una idea di progresso che è direttamente rapportabile con la libertà di pensiero e con quel benessere senza il quale viene meno anche la libertà e la democrazia. 
Col venir meno della libertà, viene meno l’impulso al cambiamento. Se viene meno l’impulso al cambiamento viene meno l’impulso alla crescita, e la crescita è, sostiene Aron, “il problema centrale dell’economia moderna” in quanto le economie moderne sono “essenzialmente progressive”. Aron credeva pure che la crescita economica si accompagna ad una migliore ripartizione: se crea inizialmente diseguaglianze, successivamente le compensa portando ad un livello superiore di benessere attraverso la ripartizione dei benefici. Questa affermazione di Aron “se rimanda a coincidenze storiche – dice Dahrendorf –, ha un qualche senso; se allude a causalità, è sbagliata. La crescita non causa di per sé stessa una ripartizione «migliore», cioè più imparziale e più giusta.”2 
Alla pari con la concezione del liberalismo del XIX secolo, che proponeva un quadro idilliaco della società industriale che procedeva pacificamente verso sempre una maggiore ricchezza e benessere per tutti, si può essere ottimisti perché si considera il progresso tecnico come la chiave della storia economica moderna. Come dice Aron nel XIX secolo i liberali pensavano che “la ricchezza sarebbe aumentata grazie alla scienza, grazie alla libera iniziativa, grazie alla concorrenza”. Il “pessimismo” al contrario, era appannaggio della sinistra, il pessimismo era socialista. Senza arrivare alle manifestazioni del cosiddetto luddismo, il progresso della tecnica al servizio della società borghese non faceva che aumentare la dipendenza e l’impoverimento del proletario. Una concezione che ancora oggi appare in voga in una certa sinistra anche sindacale, esiste un giudizio negativo sul progresso. Questo giudizio è quanto oggi accomuna un certo ecologismo con il movimento non global e le sue espressioni politiche nazionali tipo i 5S in Italia. 
Il cambiamento richiede la libertà e la democrazia che, in questo, sono essenziali allo sviluppo e al progresso economico. È paradossale che, invece, i movimenti eredi del pessimismo novecentesco oggi considerino la tecnica, o meglio la tecnologia informatica e la comunicazione in grado di sostituire la democrazia. La tecnica non può dare da sola l’impulso al cambiamento perché in quanto prerogativa dell’essere libero è un fatto prettamente umano che non può essere ridotto al fatto strettamente evolutivo. Come dice Dahrendorf “il cambiamento tecnologico non è un processo auto-propellente. Le invenzioni devono essere applicate per creare differenza. Come i burocrati, i tecnocrati possono di fatto far funzionare il mondo anche in assenza di un input democratico [ciò che è dimostrato dalle dittature del novecento che, guarda caso, sono crollate, in particolare è il caso dell’URSS che crollato con la fine della Guerra Fredda, guerra di competizione e di egemonia, perché non in grado di promuovere il cambiamento e quindi il progresso e lo sviluppo economico, correlati a libertà e democrazia!] o di un orientamento direzionale fornito dai leader; ma possono solo estrapolare, non cambiare il corso delle cose. Se è proprio questo che si vuole, cioè il cambiamento del corso, bisogna ricercare le forze sociali e gli attori responsabili dell’uso della scienza e della tecnologia, o dell’organizzazione burocratica, definendo gli obiettivi per i quali sono preposti. La razionalità da sola non è sufficiente a indicare i passaggi per la libertà.3 
Anche Aron era ben consapevole del limite del progresso scientifico e della tecnica. Infatti, scrive Aron, in “un’economia che continui a progredire è necessario che i soggetti economici siano messi in condizioni tali da prendere le decisioni necessarie per la crescita”. Aron era convinto che “la società industriale in cui viviamo e che fu prevista dai pensatori dell’ultimo secolo è fondamentalmente democratica, nel senso tocquevilliano della eliminazione delle aristocrazie ereditarie; è normalmente, se non necessariamente, democratica, nel senso che non esclude nessuno dalla cittadinanza e tende a offrire benessere materiale a tutti.”4 
Quindi la crescita economica ha un limite. Questo limite, come per il progresso scientifico, è l’incertezza e l’impossibilità di predire il futuro anche se non sapremo mai, dice Aron, se ciò sia un bene o un male. Ma è proprio da questa impossibilità, da questo limite, che nasce l’istanza, imprescindibile per la scienza e per lo stesso progresso economico, della libertà. Infatti il limite che trova soluzione soltanto nell’organizzazione democratica di una società che ha fatto propria l’istanza individuale della libertà intesa come capacità di esprimere le opinioni ed esercitare la delega attraverso le istituzioni democratiche dello Stato liberale; sia come capacità di affermare gli obiettivi di realizzazione delle proprie capacità come individuo che promuove il proprio miglioramento e quello della società attraverso le arti, la cultura, la scienza e anche attraverso l’impresa. Una società che promuove il benessere per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno esercizio della libertà che è il cuore del welfare economico e sociale.5 In tal senso progresso e libertà sono due istanze dialetticamente inscindibili attraverso la responsabilità e, come cantava Gaber , la partecipazione che dà il senso alla nostra irrinunciabile libertà https://youtu.be/7lvjscnHpGc . 
Pare ovvio concludere che parlare di de-crescita vuol dire parlare anche di fine della società libera, fondata sui principi del progresso e dell’illuminismo, e quindi anche fine della democrazia. 





[1] Ralf Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità. Saggio sulla politica della libertà, Editori Laterza, Bari 1989, p. 25.
[2] Ralf Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità. Saggio sulla politica della libertà, Editori Laterza, Bari 1989, p. 118.
[3] Ralf Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità. Saggio sulla politica della libertà, Editori Laterza, Bari 1989, p. 119.
[4] Raymond Aron, Essai sur les libertés, p. 244. Cit, da Daharendorf, ibidem, p. 239.
[5] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 3 c. 2 “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta ` e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”


Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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