mercoledì 16 maggio 2018

La Teoria della Giustizia di John Rawls è costruttivista. Può essere anche considerata radicalmente costruttivista?

Sì. Il costruttivismo di John Rawls può essere anche un costruttivismo radicale se rovesciamo la struttura della Teoria della Giustizia.
Il costruttivismo di Rawls pone al centro della teoria la scelta sotto il velo di ignoranza. La "giustizia come equità" emerge da una soluzione originale della teoria dei giochi che si realizza nel gioco cooperativo del contratto sociale, dove i principi, scelti sotto un velo di ignoranza, garantiscono la giustizia come uguaglianza, iniziale, e differenza, nello sviluppo della complessità sociale, nell'accogliere le differenze che possono produre un miglioramento almeno nel più svantaggiato dei contraenti il patto sociale. Secondo questa impostazione Rawls è un contrattualista.
Per ottenere una soluzione più radicale bisogna "forzare" il pensiero di Rawls e consntire alla Teoria di risolvere prima il problema dell'utilitarismo che sta alla base del liberalismo classico. Soltanto così la Teoria della Giustizia ritorna ad essere una teoria, innanzi tutto, liberale. Una formulazione del liberalismo politico inteso come "liberalismo costituzionale" nel senso che mira alla definizione teorica dei principi del patto fondamentale di cittadinanza. Realizzata tale forzatura, la Teoria può essere ricollocata sulla sua base naturale e ritornare ad essere "contrattualista", ma di un contrattulismo fondato sul liberalismo politico e quindi sul rafforzamento della libertà individuale e non sulla sua cessione.
Per operare il rovesciamento della piramide rawlsiana, bisogna partire dalla definizione di "bene individuale". E' qui che Rawls pone una soluzione diversa e originale al problema della scelta razionale che supera i limiti dell'utilitarismo e della definizione di interesse o utilità.

I post su Rawls, che seguiranno, affronteranno il rovesciamento (e il ri-rovesciamento!) della teoria di Rawls. Per poter aprire un portale che da Rawls porti verso il "costruttivismo politico radicale" che contine quel codice che mira al superamento della dicotomia tra razionale ed emozionale, nella definizione dei valori, per una teoria politica e politica "dal volto umano".


Per l'approfondimento del pensiero di Rawls e della Teoria della Giustizia si indicano i links:
        Salvatore Veca - Lezione su John Rawls al Collegio Ghislieri di Pavia Pubblicato il 2 set 2013- https://youtu.be/wXAF35yRkk4
        Salvatore Veca - la teoria della giustizia – Rai Enciclopedia delle scienze filosofiche - http://www.filosofia.rai.it/articoli/salvatore-veca-la-teoria-della-giustizia/5319/default.aspx
        Salvatore Veca - l'idea di giustizia in filosofia, Società.filosofica.italiana.Bergamo  Pubblicato il 19 mag 2014 https://youtu.be/wtLCqvp2qGc
        Sebastiano Maffettone – Sebastiano Maffettone racconta 'Rawls e la teoria della giustizia' https://youtu.be/0VjwiL9nSfs

martedì 15 maggio 2018

Fortitudo, ovvero la libertà e autonomia di pensiero degli erasmiani


Fortitudo, il coraggio. Nel nostro contesto si tratta di una qualità intellettuale, e non della natura di essere pronti ad affrontare il rischio. Si tratta del coraggio della «lotta individuale per la verità», cioè il coraggio di sostenere le proprie opinioni in un ambiente estraneo o addirittura ostile.
Il saggio di Dahrendorf ha per oggetto il ruolo degli intellettuali, una riflessione dibattuta da almeno due secoli, e che nel saggio assume una direzione alternativa rispetto alle antinomie con cui si è posta nelle diverse fasi, in particolare quella tra “chierici” e “laici” di Julien Benda oppure di “intellettuali rivoluzionari” e “intellettuali puri” di Norberto Bobbio.
Forse quella di Dahrendorf rappresenta più un ritorno all’origine della disputa rispetto alla manifestazione di indipendenza e di libertà di pensiero, e in ogni caso una posizione che risulta alternativa anche alla contrapposizione rispetto ai temi del progresso letto attraverso il conflitto tra cultura e sviluppo della tecnica, tra “Apocalittici” e “Integrati”.
Sicuramente gli erasmiani non sono “apocalittici” nel loro ottimismo per le sorti dell’umanità, a favore delle conquiste del progresso e della modernità, come per altro Erasmo già precursore dell’Illuminismo. Tanto meno gli erasmiani si possono considerare semplicemente “integrati” rispetto ai problemi aperti con la società di massa e i fenomeni di omologazione culturale e di giudizio che si affermano attraverso il predominio dei mass media. Al contrario sono proprio gli intellettuali erasmiani che rimarcano la necessità di promuovere e di rendere solida nelle istituzioni della società, a partire da quelle politiche e culturali, l’autonomia e la libertà nell’espressione di giudizio.
La fortitudo è quindi una virtù di cui, oggi, si coglie tanto più il valore e la necessità rispetto alle insidie della manipolazione della informazione e delle opinioni. Anche in questo caso è Popper, profeta del pensiero scientifico, del progresso e dell’indipendenza di giudizio che richiede l’esercizio della libertà.
La fortitudo, pertanto, è un coraggio che riguarda l’attività intellettuale come libertà di esprimere e sostenere le proprie opinioni.
Riguarda quindi il coraggio di proporre le proprie concezioni, anche nella più totale solitudine, svolgendo in maniera personale la propria attività di pensiero. Il coraggio di resistere al conformismo. Il coraggio di accettare, come prezzo della libertà, anche l’isolamento.
Si tratta di un coraggio che proviene dal bisogno di indipendenza intellettuale. Un coraggio che però non pretende il martirio, perché allora non sarebbe più il coraggio della libertà, ma una altra forma di fanatismo. Infatti, la virtù della fortitudo è ben diversa dal coraggio dei martiri: «parlando di coraggio - dice Dahrendorf - non intendiamo martirio. I martiri, non c’è dubbio, dimostrano un coraggio particolare, quando affrontano il sacrificio estremo per la loro causa. Essi … qualificano la loro causa come verità … certezza, che le persone … [ispirate dalle virtù della libertà] non hanno mai preteso di avere.» Quindi la fortitudo è il coraggio che diventa forza nella consapevolezza dell’incertezza e del dubbio, che rende possibile l’indipendenza di pensiero nel momento in cui fa propria l’indipendenza e la l’autonomia dell’altro e del diverso; forza che si legittima nell’apertura e nella disponibilità alla prova della falsificazione.
Le virtù della libertà impongono una determinazione che sia sempre congiunta con una disponibilità all’autocritica che salva il pensiero dalla cecità ideologica.
È preponderante ancora la lezione di Popper: «I combattenti individuali per la libertà … sanno che non troveranno la verità. Essi non annunciano neanche una verità, ma ne sono alla sua ricerca … entro un orizzonte di incertezza. Trova qui posto l’insistenza di Popper sul tentativo ed errore come destino dello scienziato».
Lo stesso destino deve valere ancor più per l’esperienza politica liberale.  Questo tipo di impresa è per sua natura solitaria anche quando viene condotta e condivisa con altri. Per gli intellettuali che si occupano di politica ciò vale in misura ancora maggiore, perché ciò vuol dire riuscire a rimanere indipendente nei giudizi. «L’intellettuale ha bisogno a questo scopo di un’altra cosa che, più ancora della solitudine, definisce la sua condizione di vita, e cioè dell’indipendenza»[1], che si realizza nella virtù della fortitudo.


[1]                 Ralf Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo. Laterza Bari 2007.

lunedì 7 maggio 2018

Ralf Dahrendorf. La Giustizia nasce dal conflitto

Iustitia. «Col termine giustizia noi indichiamo oggi soprattutto un determinato ordine della società visto come una stella polare del comportamento. … In una interpretazione più antica giustizia era anche il senso del corretto ordine delle cose umane.»[1] Un ordine «che poteva essere, ma non era necessariamente».

Dahrendorf non immagina una giustizia quale ricomposizione platonica dei conflitti in una armonia universale sotto la guida di un re filosofo. Preferisce piuttosto una versione precedente del mondo e delle cose umane, presocratica, che considera il conflitto quale principio generatore di tutte le cose, dove, così per dire, Dahrendorf si schiererebbe dalla parte di Eraclito, secondo cui la realtà non è mai per più di una volta uguale a sé stessa e che quindi tutto cambia e si muove senza principio né fine; ma contro il Parmenide dell’”essere” unico ingenerato ed eternamente uguale a sé stesso.

In questa scelta di Dahrendorf c’è anche tanto di Popper e della prospettiva di una società aperta per la quale presupposto della giustizia, e della società giusta, è l’accettazione del conflitto: «con giustizia intendiamo qui appunto la consapevolezza che nel convivere umano ci sono contrasti e contraddizioni che non possono essere eliminati, ma devono essere sopportati in maniera conveniente».

Questa idea rimanda alla considerazione che nella riflessione sulla società giusta bisogna partire dalla presa d’atto dell’esistenza di un profondo antagonismo che interagisce con le libertà di cui parla Berlin e al «quale – dice Dahrendorf – la dottrina delle virtù qui abbozzata cerca una risposta univoca».

La riflessione sugli erasmiani si sviluppa all’interno di una prospettiva che considera la dottrina delle virtù quale risposta alle contraddizioni e alle dicotomie che emergono nel rapporto tra la libertà e una società giusta. Il problema, classico della sinistra, ad esempio, del rapporto tra libertà ed eguaglianza è parte di questo conflitto; lo stesso per il problema della crescita e la distribuzione della ricchezza.

Libertà e giustizia rappresentano il cuore del conflitto sociale rispetto alle dinamiche dello sviluppo e della dell’economia e dei diritti. Infatti, per Dahrendorf il conflitto, regolamentato dallo Stato liberale e democratico, si pone al centro della dinamica sociale nel modo moderno: «Il conflitto regolamentato è la fonte del nuovo, e del fatto che il nuovo venga cercato, provato, trovato temporaneamente buono, poi migliorato con qualcos’altro, ed eventualmente anche sostituito».

Nasce così la reale speranza per gli uomini di aumentare le proprie chances di vita, quindi il miglioramento delle proprie condizioni e il raggiungimento di più avanzati traguardi di civiltà anche attraverso il progresso della scienza e della tecnica. Questo conflitto generale, questa contrapposizione che, si potrebbe dire, dialettica «trova nell’ordinamento liberale non soltanto la sua regolamentazione, ma anche la sua trasformazione da forza distruttiva a forza produttiva, creatrice.»

Nell’idea che la vicenda umana si realizzi su di un fondamento che detiene il conflitto quale nucleo centrale del proprio motore generatore, Dahrendorf si ritrova con i presocratici alla ricerca di un Arché che giustifichi la natura del mondo. Dahrendorf ritrova il suo Arché schierandosi dalla parte di Eraclito che considera il conflitto padre dio ogni cosa, un conflitto che non va confuso con l’idea hobbesiana della guerra di tutti contro tutti.

Ma non tutti i conflitti arrivano ad una composizione, se non in modo temporaneo. In ogni società umana ci sono state e continueranno ad esserci «contraddizioni che non si possono sciogliere». Valori inconciliabili, conflitti sociali che nessuna sintesi può immaginare di eliminare, contraddizioni per le quali non si ha alcuna risoluzione perfetta «nemmeno nella costituzione giusta, ma solo un “avvicinamento a questa idea” di giusto».

Infatti, la giustizia e il bene non sono nella natura delle cose e tanto meno nella natura umana poiché la natura umana è quella di essere, come diceva Kant, un legno così storto che sarebbe impensabile che da essa si possa ricavare qualcosa di perfettamente dritto. Ci si può invece approssimare a questa idea del giusto in un perenne movimento di ricomposizione e di nuovo conflitto, di fatto non esiste società umana senza conflitto; e, se esistesse, con la soppressione del conflitto, sarebbero distrutti i valori umani più importanti.

La risposta non è quindi nella ricerca dell’unanimità nella scelta e nella ricerca delle soluzioni dei problemi, come vuole la teoria contrattualista di Rousseau che considera la società come un patto formulato dalla volontà generale. «La volontà generale di Rousseau è una costruzione rischiosa, perché implica concordanza di voci dove invece c’è, per la natura delle cose, molteplicità di voci.» Rousseau risolve di fatto la dicotomia tra eguaglianza e libertà attraverso la netta soppressione della prima, dando vita ad un paradosso che nega entrambe.

Ancor più insidiosa e minacciosa per la libertà umana appare la posizione di Hegel il quale vuole affermare e riconoscere l’esistenza di una volontà oggettiva che “è il razionale in sé nel suo concetto” sia che esso venga conosciuto e voluto dai singoli oppure no. Questo schema propone una oggettivazione della ragione che è stata la tentazione dei partiti politici che evocato a sé stessi questa ragione oggettivata tanto da considerare superfluo il consenso e la volontà libera dei singoli individui. I totalitarismi europei hanno in qualche modo portato a sintesi teorie simili a queste.

Bisogna dissuadere l’uomo dalla ricerca di una società umana senza conflitto, tanto più dissuadere dal tentativo di realizzarla. La risposta non è, dunque, la ricerca dell’unanimità e ancor meno di una superiore verità “oggettiva”, ma la realizzazione di istituzioni che permettano di sostenere i contrasti senza annullare le libertà fondamentali».

La costituzione giusta, nel senso di Kant, è nell’ordinamento liberale, nella signoria del diritto e della democrazia politica. È l’ordine che può essere riconosciuto come appropriato al legno curvo della natura umana. Un ordine che mira alla virtù, «virtù che è una protezione nei confronti delle sollecitazioni e delle tentazioni del totalitarismo.» Un ordine che regolamenta il conflitto generale ed è in grado di trasformarlo da forza distruttiva in forza produttiva e creatrice. «Kant ne era consapevole. Per lui il conflitto domato è la fonte del progresso.»

Quindi progresso, chances di vita e conflitto sono aspetti imprescindibili per una società giusta.





[1]      Le citazioni sono tratte da Ralf Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo. Laterza Bari 2007. Ovviamente Dahrendorf non è un costruttivista, come altri esponenti del pensiero politico e sociologico citati in questo blog, La volontà sincretica tuttavia ci consente ad usare alcune idee in chiave costruttivista.

giovedì 3 maggio 2018

Dov'è finita l'Ideologia?



Per inciso, l'ideologia ha, e ha sempre avuto, una funzione cognitiva analoga a quella della rappresentazione sociali.

Moscovici definisce le rappresentazioni sociali come sistemi cognitivi, con una loro logica e linguaggio, attraverso i quali gli individui di una società costruiscono la realtà sociale. Si può così parlare di una conoscenza socialmente elaborata e partecipata, che concorre alla costruzione della realtà sociale e designa una forma di pensiero sociale

Una importante funzione della rappresentazione sociale, come pure dell'ideologia, è quella normativa e di costruzione dell’identità. Collocando le persone in gruppi sociali, si determinano i contenuti delle rappresentazioni e la loro organizzazione. Essendo i contenuti condivisi, le rappresentazioni sociali funzionano, anche, come formazione di un'identità sociale e di un’appartenenza.

Questa funzione è stata per decenni il collante dei partiti politici, nonostante si sia sempre tentato di definire la relazione tra gli individui aderenti a questi ultimi in termini di consapevolezza collettiva degli interessi rappresentati, per la sinistra "coscienza di classe", senza tuttavia riuscire mai a dare un senso all'incoerenza tra le scelte personali, o di intere masse, e gli interessi espressi nei programmi politici dei partiti e nella ispirazione ideologica.

L'identità e l'apparteneza rinviano alla cognizione di sé e alla formazione di una opinione condivisa. Già a partire dal secolo scorso, la manipolazione dell'opinione pubblica nelle società di massa rappresenta il cuore del conflitto tra potere oligarchico e democrazia. La caduta delle ideologie ha spostato la lotta di conquista e di controllo dell'opinione pubblica sul terreno dei mezzi di comunicazione di mass.

L'attività svolta dai mezzi di comunicazione di massa assolve oggi alla funzione di realizzazione delle rappresentazioni sociali attraverso l'intervento sullo spazio cognitivo degli individui con la proposizione di costrutti narrativi che hanno per oggetto eventi o personaggi. In conseguenza di tale intervento, mentre da un lato le ideologie tradizionali hanno perso la loro capacità di condizionamento cognitivo, dall'altro è proprio attraverso questo strumenti che si realizza, nel villaggio globale, la funzione propria delle ideologie. La capacità di manipolazione sovrasta la capacità delle stesse istituzioni democratiche, condizionando il valore della scelta dei cittadini. Inoltre il prevalere dell'uso strumentale con finalità più o meno manipolative dei contenuti delle vecchie ideologie fa retrocedere l'aspetto identitario riscrivendolo in un contesto di conflittualità amico/nemico finalizzata alla lotta di potere tra i rappresentanti del progresso e quelli della reazione conservativa e, in fondo, tra democrazia e oligarchia. Un conflitto che trascina sul campo anche le conquiste della scienza, in una situazione che prelude a nuove forme di autoritarismo attraverso il controllo informatico sui dati dei cittadini e la manipolazione delle informazioni.

In altri termini l'ideologia era, e continua ad essere, sempre tra di noi: almeno nei termini, maggiori o minori, con cui Marx la indicava come "falsa coscienza". Così è per la in politica, e coì è per le mode culturalistiche che oggi riprendono vecchie opinioni reazionarie, se non oscurantiste, rispetto a certi ambiti della scienza e della tecnica.

Il costruttivismo politico radicale che, come vedremo, è strutturalmente ed epistemologicamente edificato sul linguaggio e sulla comunicazione, propende invece per quelle rappresentazioni che Karl Manheim chiamava «utopie realizzabili».




Per approfondimenti: COS'E' IDEOLOGIA - LUISSGuidoCarli, 15 giu 2012 

Sebastiano Maffettone - https://www.youtube.com/watch?v=fcle525JRbk&t=92s




mercoledì 2 maggio 2018

Sen VS Rawls

Le osservazioni di Amartya Sen ci indicano la via per andare oltre il costruttivismo cognitivista e razionale di John Rawls, verso una ri-formulazione orientata al pragmatismo e al costruttivismo radicale. 
Amartya Sen individua una dicotomia tra le teorie della giustizia che si sono affermate in Europa, sotto l'impulso dell'Illuminismo, nel secolo XVII e XIX.  
Una tendenza si afferma nella ricerca della definizione di un ordinamento sociale perfettamente giusto e di istituzioni giuste. Una linea che Sen definisce come "istituzionalismo trascendentale" per il fatto che cerca un modello ideale di accordi sociali da cui non è possibile trascendere. A questa tradizione sono legate le idee di giustizia ispirate dall'idea di un contratto sociale idealizzato. 
Altri filosofi illuministi presentano altri tipi di approccio che hanno in comune l'interesse per il confronto fra gli assetti sociali effettivamente realizzati. L'impegno di questi ultimi è volto a modificare casi di manifesta ingiustizia, senza avvertire la necessità di identificare gli accordi sociali perfettamente giusti. 
Tra questi ultimi Sen inserisce gli utilitaristi e Marx. L'impegno di questi teorici è per la comparazione sociale e l'indicazione delle modalità per risolvere i fenomeni di ingiustizia in termini di realizzazioni. I trascendentalisti al contrario si concentrano sull'esame trascendentale dell'assetto giusto nel tentativo di identificazione ideale di istituzioni e organizzazioni giuste. 
Vedremo però che la Teoria di Rawls, nelle sue ultime versioni e revisioni fatte dallo stesso Rawls, presenta una via di uscita rispetto ai limiti del razionalismo e il pragmatismo utilitarista!
"La distanza tra le due prospettive – istituzionalismo trascendentale e comparazioni basate sulle realizzazioni - è notevole e importante. Si dà il caso che, nella sua indagine teorica della giustizia, oggi la filosofia politica faccia per lo più riferimento alla tradizione dell'istituzionalismo trascendentale. La più cogente e significativa esposizione dell'istituzionalismo trascendentale è quella che si rinviene nelle opere del principale filosofo politico del Novecento, John Rawls, … La definizione delle istituzioni giuste è anzi diventata un tratto essenziale in quasi tutte le moderne teorie della giustizia... Si impone qui, a mio avviso – dice Sen -, un radicale cambiamento, perché la prospettiva che guarda alle concrete realizzazioni non può non avere un ruolo centrale nell'idea stessa di giustizia. … la questione della giustizia non è circoscritta all'esigenza di partorire – o sognare di partorire – una società o un assetto sociale perfettamente giusti, ma investe anche la necessità di evitare stati di ingiustizia particolarmente gravi." Per esempio, dice Sen, coloro che perseguivano l'abolizione della schiavitù non si facevano ispirare dall'illusione che abolendo la schiavitù si sarebbe venuto a realizzare un mondo perfettamente giusto. Ma erano convinti che una società schiavista fosse del tutto ingiusta a prescindere dalla difficoltà di definire (tantomeno creare) una società perfettamente giusta. Abolire la schiavitù significava sanare una grave ingiustizia e favorire un importante passo avanti della giustizia. 
Questa posizione di Sen, che appare come una sorta di marginalismo, si può porre, per il metodo e l'impostazione critica verso il razionalismo trascendentale, accanto ai sostenitori del "cambiamento come soluzione ai problemi", tra i quali troviamo i precursori del pragmatismo e del Costruttivismo politico radicale 
Amartya Sen, Un desiderio al giorno per una settimana, e-book.

Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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