venerdì 1 giugno 2018

Norberto Bobbio, “mitezza” virtù liberale per eccellenza (approfondimento)

La mitezza, è la virtù, dice Norberto Bobbio, che va alla radice morale delle relazioni umane ed è, per così dire, l’elemento base che sostiene la persona umana. L’esercizio della mitezza predispone alla realizzazione della libertà propria e dell’altro; in quanto, la libertà, è innanzitutto libertà morale e virtù, e, per questo, sostanza ed essenza dell’individualità. Attraverso la definizione della mitezza, Bobbio si pone il problema della composizione di una “dottrina della virtù”1.

Le virtù, nel percorso che ha portato l’umanità verso la modernità e l’avvento del pensiero razionale e scientifico, sembrano aver perso il proprio primato, la propria centralità nella riflessione morale.
Al contrario, gli antichi risolvevano tutta l’etica in una trattazione della virtù. Alcuni filosofi moderni, occupandosi delle passioni, trovarono un posto per la virtù contrapponendola ai vizi umani. Kant, ad esempio, la vedeva come la forza di volontà necessaria all’adempimento del proprio dovere.
L’etica del dovere è l’etica del rispetto delle regole; ma il dovere può non corrispondere con la virtù. La società moderna predilige il dovere rispetto alla virtù. In Alasdair MacIntyre, la virtù si pone in chiave di sfida alla modernità: “l’etica delle virtù si contrapporrebbe all’etica delle regole, che è andata prevalendo nell’etica moderna e contemporanea. L’etica delle regole è l’etica dei diritti e dei doveri.”2 Nella società fondata sullo Stato di diritto, la virtù dell’uomo si esaurirebbe nell’osservanza dei propri doveri e nell’esercizio dei propri diritti. Le regole sono impersonali e caratterizzano i rapporti sociali con procedure sistematiche, precise e calcolate razionalmente. L’individuo diventa “soggetto astratto”, operatore razionale. È la burocrazia che, come dice Weber consente l’aumento di produttività, insieme con il “disincanto” del mondo, che guadagna in efficienza diminuendo le istanze della individualità.

In questa evoluzione verso il razionalismo, nella società del benessere, l’espressione di virtù è diventa sinonimo negativo di antico o al più di moralismo. Bobbio, come Erasmo, è un sostenitore del progresso e del pensiero scientifico, espressione prometeica più propria della libertà dell’essere umano e non alienazione. E come Erasmo, Bobbio non crede alla contrapposizione tra l’uomo virtuoso e l’uomo del progresso, l’uomo economico. Nella riflessione sul valore attuale della virtù non non è disposto pertanto di sviluppare una contrapposizione tra virtù e i principi etici, o regole o un’antitesi antitesi tra modernità e tradizione.

Infatti, come sostiene Bobbio, non è evidente che l’etica della virtù si sia posta in contrapposizione di fronte all’affermazione dell’etica delle regole. Infatti, anche nell’etica antica il tema della virtù e quello delle leggi sono continuamente intrecciati tanto che, per Aristotele, parte della virtù della giustizia consiste nell’abitudine a obbedire alle leggi.

Secondo Bobbio la contrapposizione tra l’etica della virtù e l’etica del dovere, “come se una escludesse l’altra”, dipende da un errore di prospettiva: infatti queste due morali rappresentano due punti di vista diversi ma non contrapposti, fatto di cui, tanto più oggi, a fronte dell’evoluzione della tecnica, “è più utile e ragionevole cominciare a rendersi conto”. Entrambe le prospettive “hanno per oggetto l’azione buona, intesa come azione che ha per motivo la ricerca e per fine il conseguimento del Bene. Con questa differenza: che la prima la descrive, la indica, la propone come esempio; la seconda la prescrive come comportamento che si deve tenere, come dovere.”3 Quindi sia la virtù che il dovere entrano in gioco nella realizzazione delle motivazioni e e negli atti che che portano l’essere umano a ricercare il conseguimento del bene. La virtù e il dovere si presentano, in un costante equilibrio: la virtù sotto la veste di esempio descrittivo, volto più alla conoscenza ed alla acquisizione interiore; acquisizione che diventa valore e quindi prescrizione, dovere per il comportamento. Appare quindi chiaro, dice Bobbio, che la virtù non si contrappone al dovere, e che entrambi possono concorrere alla realizzazione del bene.

Nel rapporto tra motivazione, attribuzione di valore, quindi virtù, e agire sociale, quindi dovere, finalizzati al bene, si collocano le “virtù sociali”. La mitezza è in tal senso una virtù sociale. La virtù che sta al centro e che è misura delle relazioni con i nostri simili. Secondo Aristotele, la mitezza è “disposizione buona rivolta agli altri”.
In quanto tale è somigliante ad altre virtù sociali, come, ad esempio la giustizia; e si distingue da quelle che sono considerate virtù individuali: il coraggio, la temperanza, che si presentano innanzitutto come “disposizioni buone soltanto nei riguardi di sé stesso”. Anche se, come virtù, quelle individuali costituiscono il presidio della libertà: sono le virtù che organizzano la resistenza contro ogni minaccia alla libertà e all’autonomia e indipendenza morale e intellettuale. In senso liberale, sarebbe difficile trovare il confine tra “virtù sociali” e “virtù individuali”. La distinzione pertanto non costituisce una vera dicotomia, ma si tratta di un rapporto complementare in cui, ci sembra si possa dire che, Bobbio, consideri in modo preminente l’aspetto di “leva” che alcune virtù hanno nella costruzione delle regole sociali in modo positivo; laddove, si potrebbe dire, che le virtù individuali emergono in modo “negativo”, in senso di protezione e di equilibrio del sistema tra sociale e individuale; e quindi, per estensione, tra l’uguaglianza come principio sociale e la libertà come ricerca individuale.


La mitezza non è da confondere con la docilità, caratteristica più attinente al comportamento di chi non si sdegna, e coglie l'ingiustizia come una fatalità; una disposizione d’animo che non ha bisogno degli altri per manifestarsi. La docilità come la mansuetudine è passiva, l’uomo mansueto non si sdegna, ed ha una consapevole accettazione del male quotidiano. Il contrario del mite. La mitezza, infatti, è attiva, si indigna di fronte al male e all’ingiustizia. Non fugge ma reagisce e la sua azione è volta ad aiutare l’altro a vincere il male. La mitezza pertanto può essere considerata come “una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite – dice Bobbio – è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé.”4 La mitezza va oltre la tolleranza perché cerca il l’altro, il diverso da sé. La mitezza si compie infatti nella realizzazione del bene dell’altro, ed è rispetto dell’altro e, in questo manifestarsi verso il diverso è l’unica suprema “potenza” che consiste “nel lasciar essere l’altro quello che è”.
Anche se la mitezza è confinante con il territorio della tolleranza rispetto alle idee e il modo di vivere altrui, il mite va oltre la stessa tolleranza. Infatti, la tolleranza sussiste su di una reciproca obbligazione degli uni verso gli altri altrimenti, se viene meno la reciprocità, si concretizza uno stato di sopraffazione. Invece “il mite non chiede, non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata.”5

Quindi la mitezza non è mai un atteggiamento verso sé stessi; ma atteggiamento verso gli altri che, proprio per ciò, non cade mai né nella sopravvalutazione né nella sottovalutazione di sé stessi. Per questo non va confusa con la modestia, che deriva da una mancanza di stima per sé stessi. Il mite non è modesto.

Inoltre, la mitezza non va scambiata per remissività. Il remissivo è colui che rinuncia per debolezza, per paura, per rassegnazione. La remissività non si concilia con le virtù della libertà. Il mite non è remissivo né cedevole, quindi non accetta e non si rassegna. Tuttavia, nelle cose umane, il mite non serba rancore né sentimenti di vendetta, non accetta di imporre ai fatti umani la logica della gara tra chi vince e chi perde e sa che per essere in pace con sé stessi bisogna prima essere in pace con gli altri.
Il mite “attraversa il fuoco senza bruciarsi – dice ancora Bobbio –, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità.”6 In tal senso possiamo dire che la mitezza sta al centro delle virtù cardinali ed è misura di esse e può essere assimilata a ciò che le dottrine orientali chiamano compassione ed empatia.

La mitezza non va poi confusa con l’umiltà, intesa come remissività. In quanto questa può essere considerata una espressione della propria debolezza e impotenza che contraddistingue, come sostiene Spinoza, un passaggio verso “uno stato di minore perfezione”, una perdita di sé, nel momento in cui può condurre ad uno stato di tristezza (o depressione).
Il mite, al contrario è una persona serena, ilare, soddisfatta di se stessa, felice, in quanto intimamente convinta della propria aspirazione ad una migliore condizione, “una condizione che egli prefigura nella sua azione quotidiana, esercitando appunto la virtù della mitezza” insieme con le altre virtù. L’umile può essere un testimone nobile, ma senza speranza, di questo mondo, mentre “Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore” 7.

La mitezza ha come virtù complementare la semplicità. La semplicità si può pensare come una disposizione “unita alla limpidità, alla chiarezza, al rifiuto della simulazione… una predisposizione della mitezza. Difficilmente l’uomo complicato può essere disposto alla mitezza: vede dappertutto intrighi e trame e insidie, e quindi tanto è diffidente verso gli altri quanto insicuro verso sé stesso.”8 Il mite ha una concezione erasmiana dell’altro e dei rapporti umani, una concezione opposta alla visione dell’uomo presente in Hobbes o Machiavelli. Il mite è figlio di quell’Illuminismo che vede l’umanità sempre come fine e mai come un mezzo.

Bobbio considera la mitezza come prefigurazione della città ideale, è la mitezza che rende il mondo migliore, in quanto essa prefigura e fa pensare che “la città ideale non sia quella fantasticata e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale.”9

La scelta della mitezza è per Norberto Bobbio una scelta “metafisica” che affonda cioè le radici in una concezione del mondo, ed è una scelta storica da considerare “come una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere.” Una scelta oggi tanto più impellente a fronte di una politica e che sta scadendo sempre più verso il conflitto e la reciproca delegittimazione. Un valore impolitico quale presupposto per ogni relazione politica fondata sul rispetto reciproco e delle regole che presiedono alla democrazia liberale.

Nella sua universalità e nella sua centralità rispetto alle regole della che sottostanno alla civiltà liberale, la mitezza è da considerare come una virtù non politica in quanto esercizio della non violenza, in quanto tale è rifiuto della politica (e diciamo, nel contempo, con l’occhio rivolto alla fenomenologia politica del neo populismo italico, esercizio di quella ironia impolitica che, secondo Thomas Mann, si contrappone al radicalismo, mentre rigetta il ridicolo come espressione violenta del dileggio).
Quindi “la mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù. In un’eccezione forte della politica, nell’eccezione machiavellica o, per essere aggiornati, schmittiana, la mitezza è addirittura l’altra faccia della politica”.10
È fondamentale, sostiene Bobbio, per la filosofia politica, stabilire i limiti tra il politico e il non-politico. È mostruosa l’idea che tutto, nelle relazioni umane, possa debba essere ricondotto soltanto alla politica e definire l’essere umano soltanto in misura di questa qualità. Nella nota di Bobbio nella definizione della mitezza emerge chiaramente una concezione chiara della politica quale campo di quelle virtù machiavelliche e hobbesiane, ammirate da Hegel, contrarie a quelle che Erasmo considerava invece le virtù del principe cristiano che aprono il campo della politica oltre gli ambiti che riguardano il potere e i modi per preservarlo ponendo come obiettivo stesso della politica il perseguimento del Bene, e il bene comune quando assume un senso politico. Quel bene che realizza la vocazione umana, nel senso del principio aristotelico del perseguimento del bene inteso come soddisfazione nella realizzazione della proprie abilità e nella tendenza a migliorare sempre più le capacità. Il bene che si impone attraverso la “stima di sé” e che non può realizzarsi senza il rispetto degli altri. Rispetto di sé, senso del proprio valore nella realizzazione del proprio piano di vita ragionevole.11

La concezione dei limiti della politica, del conflitto politico, forma il nucleo dell’argomento principale per cui Dahrendorf ammettere di diritto Bobbio tra gli erasmiani. Infatti, quelle che, in questo caso, sono considerate virtù impolitiche diventano immagini di un mondo che non conosce né vinti né vincitori, almeno come principio ispiratore delle azioni politiche. Si tratta di un mondo dove domina la libertà e la dignità umana, e che, nell’ambito della vita politica, ha imparato a tenere nella dovuta considerazione tutte le virtù liberali. Quelle “virtù della libertà” che predominano nell’idea di politica di personaggi come Raymond Aron, Karl Popper, Isaiah Berlin e Norberto Bobbio, appunto personalità che ci indicano con la loro opera e l’impegno come intellettuali esempi di cosa possa 
essere considerata la mitezza. Dahrendorf iscrive Bobbio tra gli intellettuali che, nel ventesimo secolo, si opposero alle “tentazioni” totalitarie e autoritarie. Ciò nonostante il fatto che, a differenza di tanti altri, il regime in italiano abbia garantito una cattedra che permise a Bobbio oltre un decennio di vita accademica fino all’arresto del 1943.
Opporsi alle tentazioni totalitarie vuol dire opporsi al totalitarismo in ogni sua forma e manifestazione e avversarlo nelle scelte, nei comportamenti e sul piano morale oltre che, per chi ne ha gli strumenti, politicamente.  Ma il fatto di opporsi politicamente al totalitarismo, non costituisce in sé elemento sufficiente per appartenere al circolo degli erasmiani. Infatti il XX secolo ha visto altri intellettuali opposti al totalitarismo nei vari paesi europei, che ne hanno anche subito le più estreme conseguenze, ma ciò nonostante questi non appartengono al club degli erasmiani di Dahrendorf in quanto, come oppositori politici, non non sono stati oppositori in senso universalmente morale ad ogni forma di autoritarismo.
Infatti, gli appartenenti al club sono rappresentanti di una opposizione morale, prima ancora che etica e politica; una opposizione radicale, profonda, che va alla radice morale delle relazioni umane, perché ritiene che queste non possono che fondarsi sulla libertà e sul riconoscimento dell’altro. Quindi al club appartengono gli intellettuali che moralmente hanno aderito ad una idea opposta ad ogni forma di totalitarismo e di autoritarismo tout court., in quanto nemico o ostacolo della  dignità e della libertà umana. 12

    1 Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2010 (prima edizione 1998)
    2 Ibidem p. 31.
    3 Ibidem p. 32.
    4 Ibidem, p. 35.
    5 Ibidem, p. 43.
    6 Ibidem, p. 41.
    7 Ibidem, p. 42.
    8 Ibidem , p. 44.
    9 Ibidem, p. 45.
    10 Ibidem, p. 39.
    11 vedi J. Rawls, Teoria Terza parte
    12 Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo.

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    Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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