giovedì 21 febbraio 2019

John Rawls 0.2 - poteri morali e cooperazione sociale equa


Allo scopo di rendere conto dei valori della società e del bene realizzato dalla giustizia, la terza parte della Teoria della giustizia, Rawls, si occupa di presentare in maniera dettagliata e attraverso una “prospettiva più generale” la “Teoria del bene”.
La finalità del capitolo è di fornire un “fondamento più saldo” ad una teoria, quella del bene, che è stata usata in precedenza nella Teoria per “definire i beni principali e gli interessi della persone nella posizione originaria” .
(Ricordiamo che la definizione dei beni originari è fondamentale per rispondere alla domanda utilitarista rispetto a “quali interessi?”; una domanda che pare essere considerata il punto debole dell’utilitarismo).
Obiettivo della riflessione è di stabilire le congruenze tra la “giustizia” e la “bontà” nel contesto di una “società bene ordinata” attraverso la parabola di una “psicologia morale” e dell’acquisizione del “sentimento di giustizia”. Pertanto, l’ultima parte della teoria del bene vuole spiegare come la Teoria è collegata, o si collega, ai valori sociali e al bene della collettività, senza tuttavia esplicitare quell’anello mancante che verrà riformulato da Rawls un ventennio dopo la stesura della Teoria della Giustizia.
“il bene di una persona è determinato da ciò che per essa rappresenta il piano di vita più razionale, date circostanze ragionevolmente favorevoli”. Bisogna innanzitutto domandarsi se “il piano di vita più razionale” corrisponda con l’interesse nei termini utilitaristi. Se così fosse allora il concetto si potrebbe formulare nei termini seguenti “il bene di una persona è rappresentato dal suo interesse più razionale”. Tuttavia non ci sembra che il “bene di una persona” possa essere considerato omologo all’interesse in termini di utilità. Infatti il punto discriminante rispetto all’utilitarismo non sta nella concezione della razionalità, ma nella definizione del bene che, per Rawls, racchiude una estensione che, a nostro avviso, va oltre quella di calcolo razionale, per interessare direttamente una definizione dei valori e per la quale Rawls fa riferimento direttamente ad Aristotele, secondo cui “il bene dell’uomo consiste in una attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta.” (p.20, Etica Nicomachea), inoltre, dice ancora Aristotele, la felicità è il bene più degno che si possa scegliere ed è “manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute” (p. 19, Etica Nicomachea). Quindi, in una persona il bene corrisponde alla felicità o, potremmo dire, alla ricerca della felicità. La felicità aristotelica non è traducibile con il moderno amusement, si tratta piuttosto della felicità come esercizio delle virtù più propriamente umane; infatti felicità è per Aristotele “un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù” mentre di tutti gli altri beni si può dire che “alcuni le appartengono di necessità, altri invece hanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti” (Etica Nicomachea p. 25) Una attività conforme a virtù è quella che realizza al meglio le proprie migliori vocazioni umane nei campi dove questi si esprimono. Il bene supremo dell’uomo è la felicità in quanto la felicità è un bene che noi perseguiamo per sé stesso e mai in vista di qualche altro bene; quindi la felicità è il bene assoluto, il perseguimento di tale forma di felicità assoluta non è che l’espressione più libera della propria vocazione umana.
Felicità, in sostanza, è quella che noi chiamiamo saggezza in un certo modo, ma che è anche la realizzazione del proprio talento e vocazione in quella che Aristotele considera la realizzazione della propria natura umana rispetto a ciò che l’individuo considera la propria eccellenza, cioè la realizzazione della parte migliore di sé stessi. Pertanto una linea fondamentale di discrimine tra Rawls e l’utilitarismo è rappresentata da una diversa concezione del bene e quindi delle finalità dell’azione umana.
Ma ad un primo approccio questa differenza potrebbe semplicemente essere considerata rispetto a un diverso vincolo di razionalità, che in Rawls farebbe riferimento al “contratto sociale”, mentre nell’utilitarismo il vincolo sarebbe nella razionalità tra mezzo e fine considerato come utilità. In questi termini la Teoria perderebbe, a nostro avviso, ogni connotazione di tipo liberale per ascriversi alle teorie politiche della società chiusa. Quindi se vogliamo mantenere la terminologia tradizionale, si potrebbe dire che la differenza tra utilitarismo e il contrattualismo di John Rawls consiste, in senso più forte, nella differenza tra una teoria che definisce l’azione politica in funzione dell’interesse o utilità e una teoria che definisce l’azione politica in funzione del “bene” nel senso in cui si è detto sopra. In termini minimali ciò che trasforma l’utilità individuale in un bene potrebbe essere considerato il vincolo sociale rispetto alla sua realizzazione e alla sua definizione. Ciò andrebbe ancora bene per la prima definizione della teoria di Rawls, in cui la scelta viene considerata vincolata esclusivamente alla condizione di “ignoranza”, ovvero della scelta sotto il velo di ignoranza. Ma nella riformulazione della teoria, Rawls, oltre al metodo di definizione della scelta, individua la presenza, nel gioco della scelta, di due valori fondamentali che orientano la scelta dell’individuo sotto il velo di ignoranza: i due “poteri morali” intesi come “capacità di avere senso di giustizia e quella di concepire il bene”, che le persone possiedono e che gli consentono di essere “membro di una società politica, vista a sua volta come equo sistema di cooperazione sociale da una generazione alla successiva”.
I due poteri morali non appartengono all’ambito delle scelte sotto il velo di ignoranza, ma sono condizioni costitutive e preliminari delle scelte. In tal senso la “socialità” non nasce soltanto dalla razionalità del calcolo in una teoria dei giochi che potrebbe sembrare una variante del dilemma del prigioniero; ma nasce da una condizione sottostante (intuitiva?) che realizza la moralità. Infatti, dice Rawls, “…possiamo dire che fa parte della natura essenziale del cittadino (all’interno della concezione politica) il possesso dei due poteri morali che stanno alla radice della sua capacità di impegnarsi in una cooperazione sociale equa.”  I principi di giustizia, conseguenti in senso logico, ai due poteri morali, rappresentano poi l’atto costitutivo fondamentale che regola in modo costitutivo l’impegno in una “cooperazione sociale equa” da una generazione alla successiva.
Quindi l’idea di bene è qualcosa di diverso rispetto all’idea di “interesse”; e prescinde dalla concezione della razionalità che, nel contrattualismo liberale, o meglio nel liberalismo politico, dove “politico” sostituisce “contratto sociale”, rawlsiano sarebbe da considerare esclusivamente come limite del vincolo sociale rispetto alle scelte. Un vincolo che, in ogni caso, non verrebbe preso in considerazione dagli utilitaristi, essendo per questi la società una risultante, se non addirittura una finzione.
In conclusione possiamo distinguere due livelli logici nella teoria della scelta sotto il velo di ignoranza rawlsiano: un primo livello, da Rawls teorizzato più tardi, che attiene ad una sorta di condizione morale che fa riferimento alla concezione della virtù aristotelica; e un secondo livello, in cui avviene la scelta, e che riguarda le condizioni di socialità dovuti al velo di ignoranza, un velo che tuttavia non si stende fino all’ignoranza dei due “poteri morali”.
Il centro della teoria rawlsiana è quindi quella della formulazione di una concezione politica della giustizia e di un bene politico comune a tutti i membri della comunità attraverso il quale vengono promosse le migliori qualità morali degli individui in quanto appartenenti a questa comunità. I principi di giustizia, compreso il principio di differenza, non vanno quindi intesi come programmi per la distribuzione di risorse ma come strutture di base che rendono possibile la realizzazione delle qualità morali degli individui e del pluralismo realizzabile, da generazione in generazione, attraverso una forma di consenso per “intersezione” quale modalità di gestione democratica delle diverse visioni “comprensive”.

1 John Rawls, Una Teoria della Giustizia, Feltrinelli 1982, p. 327.
2 John Rawls, Giustizia come equità, 2001. Ed italiana, Feltrinelli, 2002, p. 223.

giovedì 7 febbraio 2019

Erasmo da Rotterdam VS Machiavelli. 0.2. Machiavelli: Il Principe, ovvero l’arte del despota

Homo homini lupus

Il pessimismo sulla natura umana è la premessa assoluta per la legittimazione di ogni azione che conduca alla manifestazione del potere dell’uomo sugli uomini, “perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni”, ed è la necessità che che soggioga la triste natura umana attraverso la forza e l’inganno visto che “sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.”. (Il Principe, cap. XV, p. 81)

Il Principe di Machiavelli non è un libero tra liberi come per Erasmo, ma assomiglia più allo stregone che vuole dominare la forza minacciosa di una natura malvagia. Il popolo è l’incarnazione di questa natura. Il popolo è il nemico di cui il Principe deve temere le insidie “…quel principe che ha più paura de’ populi che de’ forestieri, debbe fare le fortezze; ma quello che ha più paura de’ forestieri che de’ populi, debbe lasciarle indrieto. … la migliore fortezza che sia, è non essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze, et il populo ti abbi in odio, le non ti salvono; perché non mancano mai a’ populi, preso che li hanno l’armie forestieri che li soccorrino.” (Il Principe, cap. XX, p. 100)

Anche Machiavelli ritiene che il Principe debba essere saggio, ma la sua saggezza nasce dal pessimismo rispetto alla natura umana, dall’idea che l’uomo è portato a fare il male se non bene indirizzato :“il Principe deve essere saggio “uno principe, il quale non sia savio per sé stesso, non può essere consigliato bene”. E saper governare gli uomini e i suoi ministri per la sua saggezza e non il contrario, perché gli uomini, dice Machiavelli, sono sempre tristi cioè portati a fare il male piuttosto che il bene, se la necessità non li porta nella direzione contraria. “Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano.”

Una concezione pessimistica della natura umana: “consigliandosi con più d’uno, uno principe che non sia savio non arà mai e’ consigli uniti, non saprà per sé stesso unirli: de’ consiglieri, ciascuno penserà alla proprietà sua; lui non li saprà correggere, né conoscere. E non si possono trovare altrimenti; perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni. Però si conclude che li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del principe, e non la prudenza del principe da’ buoni consigli.1” (Il Principe, cap. XXI, p. 109)

L’astuzia: dominio sul popolo

Dominare la volontà del popolo per averne il consenso è lo strumento del potere di tutte le dittature dell’età moderna. In questa forma di dominio il corpo del Pirincipe si identifica con il corpo del popolo, questo è il nucleo populista di ogni dispotismo che in questa immediatezza abolisce ogni forma di intermediazione della rappresentanza dei portatori di interessi, considerando il corpo sociale come un unico soggetto e un’unica dimensione con cui rapportarsi e identificarsi: il popolo.


Ma il principe deve dominare il popolo da cui corre il rischio perenne di essere divorato. Infatti il Principe, contro il popolo deve usare l’astuzia. Un uso dell’astuzia al fine di mantenere il consenso e alta l’immagine presso il popolo “…molti iudicano che uno principe savio debbe, quando ne abbi la occasione, nutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne seguiti maggiore sua grandezza.” (Il Principe, cap. XV, p. 98)

Un Principe deve fare grandi cose e tenere occupato il popolo suscitando la continua ammirazione verso le sue imprese, ciò consente al Principe di tenere occupati “li animi” e acquistare “reputazione et imperio sopra di loro, che non se ne accorgevano”.

Quindi, “Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe, quanto fanno le grandi imprese e dare di sé rari esempli.” Fare quelle “cose grandi” le quali “…sempre hanno tenuto sospesi et ammirati li animi de’ sudditi e occupati nello evento di esse. Queste azioni non danno, “infra l’una e l’altra, spazio alli uomini di potere quietamente operarli contro. … E sopra tutto uno principe si debbe ingegnare dare di sé in ogni sua azione fama di uomo grande e di uomo eccellente.” (Il Principe, cap. XXI, p. 102)

Oltre che consigli di arte della politica, Machiavelli elargisce al Principe consigli su come mantenere il potere sul popolo. In questo deve essere liberale e riconoscere l’autonomia delle attività e delle arti perché da un popolo soddisfatto non avrà mai da temere. “Debbe ancora uno principe monstrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricultura, et in ogni altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare le sua possessione per timore che le li sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, et a qualunque pensa, in qualunque modo ampliare la sua città o il suo stato. Debbe, oltre a questo, ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste e spettaculi. E, perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma non di manco la maestà della dignità sua, perché questo non vuole mai mancare in cosa alcuna.” (Il Principe, cap. XXI, p. 105)

In questa perenne lotta per il mantenimento del potere contro gli spiriti malvagi provenienti dal popolo (altro che libero tra liberi, di Erasmo!), il fine giustifica i mezzi: “Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo”. (Il Principe, cap. XV, p. 83)

Quel principe che dà di sé questa opinione, è reputato assai… Perché uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni. Da questa si difende con le buone arme e con li buoni amici; e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando stieno ferme quelle di fuora, se già le non fussino perturbate da una congiura … Ma, circa sudditi, quando le cose di fuora non muovino, si ha a temere che non coniurino secretamente: di che el principe si assicura assai, fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi el populo satisfatto di lui … per tanto, che uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, quando el popolo li sia benivolo; ma, quando li sia inimico et abbilo in odio, debbe temere d’ogni cosa e d’ognuno. E li stati bene ordinati e li principi savi hanno con ogni diligenzia pensato di non desperare e’ grandi e di satisfare al populo e tenerlo con- tento; perché questa è una delle più importanti materie che abbia uno principe.” (Il Principe, cap. XV, p. 84)

Machiavelli si chiede se il Principe debba governare con la “fede”, col le leggi, o, diremmo noi con i valori, oppure con l’astuzia e con la forza. I Principi che hanno saputo fare grandi cose sono quelli che hanno aggirato con l’astuzia il cervello degli uomini, dice Machiavelli e conclude per un uso sapiente dei due elementi ma considera l’astuzia e la violenza come preminente nella capacità di mantenere un regno. Un pessimismo sulla natura umana che chiede il dominio della paura sulla ragione e su un bene comune che è visto soltanto come utilità e conferma e legittimazione del supremazia. “Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro.” (Il Principe, cap. XV, p. 81)

“Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.

Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano.

… quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.”. (Il Principe, cap. XV, p. 81)

Panemem et circenses

Panemem et circenses è la formula per il dominio del popolo. Un popolo di sudditi al di fuori della democrazia, e non di liberi come il popolo di Erasmo. Il Principe vuole che il suo popolo non versi in miseria, perché ciò diventa pericoloso per il mantenimento del potere e non per la realizzazione di quelle virtù come Aristotele vedeva come fine e causa della democrazia degli ateniesi. Bisogna dare al popolo il pane per scongiurarne l’ostilità, ma non la libertà. La libertà indispensabile alla virtù divine qui un fardello e un pericolo per il potere del Principe. L’attività umana serve a mantenere occupati i sudditi e la virtù è solo quella del principe, quale icona manieristica del cavaliere di fronte ai propri servi.

Apparire virtuoso e agire in modo illiberale, così il Principe deve prestare attenzione alle attività del suo popolo: “Debbe ancora uno principe monstrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricultura, et in ogni altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare le sua possessione per timore che le li sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, et a qualunque pensa, in qualunque modo ampliare la sua città o il suo stato. Debbe, oltre a questo, ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste e spettaculi. E, perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma non di manco la maestà della dignità sua, perché questo non vuole mai mancare in cosa alcuna.” (Il Principe, cap. XXI, p. 105)

Pragmatismo

Il Principe di Machiavelli si presenta con le caratteristiche opposte a quelle indicate da Erasmo. Per rimanere nell’ambito delle passioni, possiamo dire che nell’arte del governo Erasmo fa appello alle passioni positive attraverso le quali realizzare il benessere comuni e una società giusta. Machiavelli partendo da una concezione pessimista dell’umanità, fa appello alle capacità del Principe di dominio sui sudditi e dell’essere umano attraverso il governo di quelle che sono state definite come passioni tristi, un dominino che si deve esprimere attraverso il potere della paura che rappresenta lo strumento più potente nelle mani del Principe. Il fine in questo caso non sembra essere il benessere ma il mantenimento del potere, tuttavia questo potere deve saper mantenere un equilibrio tra le passioni negative in modo da non suscitare quei sommovimenti che metterebbero a repentaglio il potere stesso. La virtù del principe è il governo di queste passioni finalizzato ad ottenere il massimo di utilità per lo Stato.

In questo Machiavelli si richiama ad un certo realismo, o meglio ad un riduzionismo che, oggi, potremmo dire nichilista, rispetto alle qualità della natura umana, di contro alla “immaginazione” di alcuni filosofi che hanno descritto regni inesistenti: “sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa” (Il Principe, cap XV, p. 72). Non bisogna quindi perdere di vista quello che è e quello che si fa per seguire ciò che dovrebbe essere il mondo e cosa si dovrebbe fare. E quello che è ci dice non siamo buoni e se “uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.” (Il Principe, cap. XV, p. 72).

“tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude.”

“Debbe, per tanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi sua uniti et in fede; perché, con pochissimi esempli sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o rapine: perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare. Et intra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli.” (Il Principe, cap. XV, p. 77).

Evitare gli adulatori

Il Principe deve sapersi scegliere ministri e segretari: “Non è di poca importanzia a uno principe la elezione de’ ministri: li quali sono buoni o no, secondo la prudenzia del principe. E la prima coniettura che si fa del cervello d’uno signore, è vedere li uomini che lui ha d’intorno; e quando sono sufficienti e fedeli, sempre si può reputarlo savio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e mantenerli fideli. Ma, quando sieno altrimenti, sempre si può fare non buono iudizio di lui; perché el primo errore che fa, lo fa in questa elezione.” (Il Principe, cap. XXI, p. 105)

Ma ciò che interessa a Machiavelli non è il valore morale del collaboratore del Principe, ma la fedeltà [la contrapposizione tra Erasmo e Machiavelli risiede proprio in questa differente valutazione del referente umano che per Erasmo comprende la libertà e la dignità umana, e in questo è precursore dell’Illuminismo e della società moderna; mentre in Machiavelli è l’appartenenza della persona il feudale ”uomo di altri uomini”, una caratteristica del potere dispotico delle società arcaiche, del feudalesimo e della Signoria. In Machiavelli non esiste una concezione della individualità ed un’attribuzione di valore alla dignità e alla libertà umana. La persona è parte di un tutto, come nella metafora di Menenio Agrippa, e non è considerato detentore di libertà, né di diritti individuali; anzi, al contrario, la manifestazione di autonomia non è che un tradimento, a meno che questa non sia volta a rafforzare il potere del principe. In tal senso il Principe di Machiavelli può essere considerato un manuale per l’esercizio del dispotismo. Il margine della differenziazione tra principe e ministri, tra principe e sudditi è la realizzazione dell’utile: l’utile del principe è il mantenimento del proprio potere e la sua magnanimità è rivolta alla realizzazione di questo; il perseguimento di una utilità diversa è considerata come avversità e minaccia al potere del principe]

“Ma come uno principe possa conoscere el ministro, ci è questo modo che non falla mai. Quando tu vedi el ministro pensare più a sé che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca dentro l’utile suo, questo tale cosí fatto mai fia buono ministro, mai te ne potrai fidare: perché quello che ha lo stato d’uno in mano, non debbe pensare mai a sé, ma sempre al principe, e non li ricordare mai cosa che non appartenga a lui. E dall’altro canto, el principe, per mantenerlo buono, debba pensare al ministro, onorandolo, facendolo ricco, obligandoselo, participandoli li onori e carichi; acciò che vegga che non può stare sanza lui, e che li assai onori non li faccino desiderare più onori, le assai ricchezze non li faccino desiderare più ricchezze, li assai carichi li faccino temere le mutazioni. Quando dunque, e’ ministri e li principi circa ministri sono cosí fatti, possono confidare l’uno dell’altro; e quando altrimenti, il fine sempre fia dannoso o per l’uno o per l’altro.” (Il Principe, cap. XXI, p. 107)

Tuttavia il principe deve evitare gli adulatori e in ciò si presenta come un principe illuminato che concede libertà agli uomini saggi in grado di dire la verità e di consigliarlo senza adularlo. “non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che li uomini intendino che non ti offendino a dirti el vero; ma, quando ciascuno può dirti el vero, ti manca la reverenzia. Per tanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda, e non d’altro; ma debbe domandarli d’ogni cosa, e le opinioni loro udire; di poi deliberare da sé, a suo modo; e con questi consigli e con ciascuno di loro portarsi in modo, che ognuno cognosca che quanto più liberamente si parlerà, tanto più li fia accetto: fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare drieto alla cosa deliberata, et essere ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e’ precipita per li adulatori, o si muta spesso per la variazione de’ pareri: di che ne nasce la poca estimazione sua.” .” (Il Principe, cap. XXI, p. 108)

Farsi temere

Premesso il fatto minimo che il principe non deve attrarre su di sé l’odio da parte dei governati, e ciò potrebbe accadere soltanto se applicasse delle tassazioni inique volte a mantenere spese e sfarzo, ci si chiede quale debba essere, per il resto, il comportamento verso i governati. “Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina; perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma elle non si hanno, et a’ tempi non si possano spendere. E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro… quando el principe è con li eserciti et ha in governo multitudine di soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome non si tenne mai esercito unito né disposto ad alcuna fazione.” (Il Principe, cap. XV, p. 78-79).

Ponderante, in Machiavelli, è l’ambiguità tipica del periodo, la doppiezza; l’uso misurato della simulazione e della dissimulazione, l’inganno. La paura è il centro del dominio ed è la paura a dominare l’azione del principe: “uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni. Da questa si difende con le buone arme e con li buoni amici; e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando stieno ferme quelle di fuora, se già le non fussino perturbate da una congiura … Ma, circa sudditi, quando le cose di fuora non muovino, si ha a temere che non coniurino secretamente: di che el principe si assicura assai, fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi el populo satisfatto di lui … per tanto, che uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, quando el popolo li sia benivolo; ma, quando li sia inimico et abbilo in odio, debbe temere d’ogni cosa e d’ognuno. E li stati bene ordinati e li principi savi hanno con ogni diligenzia pensato di non desperare e’ grandi e di satisfare al populo e tenerlo contento; perché questa è una delle più importanti materie che abbia uno principe.” (Il Principe, cap. XV, p. 84)

Si potrebbe dire che Machiavelli teorizza quello che potremmo chiamare “gattopardismo”, un comportamento di fronte al cambiamento, che ha portato alla nascita degli stati nazionali, che senza dubbio ha contraddistinto la realtà storica e ha strutturato la nascita della coscienza politica in Italia anche dopo l’unità nazionale. Paradossalmente ciò che per Machiavelli poteva essere una idea forte di evocazione di un Principe in grado di far portare verso la costituzione di uno stato nazionale, mostra oggi, alla luce delle idee che considerano il progresso imprescindibile dalla presenza di una società fondata su valori liberali e sui principi dello stato di diritto e della democrazia; oggi proprio il machiavellismo mostra proprio quelle che sono state le debolezze costitutive nella nascita della nazione, debolezze che hanno portato sia Gobetti che Gramsci a parlare di Risorgimento incompiuto. Un limite della storia nazionale che nel secondo dopoguerra si è immaginato di poter superare nell’europeismo, un europeismo che, per diventare un progetto politico e un nuovo orizzonte di identità e condivisione per tutti i cittadini europei, non può non avere una dimensione che parta da quei valori già indicati nell’umanesimo erasmiano.

In ogni caso rimane aperta la discussione se quelli di Machiavelli sono consigli rivolti al despota oppure rivolti al popolo. In questo secondo caso il Principe non sarebbe un despota, un uomo solo al potere, ma Principe sarebbe soltanto il sovrano e Machiavelli affermando che la forza del principe è quella del suo popolo potrebbe essere considerato un sostenitore della repubblica e non della tirannide. La pensano così Spinoza e Rousseau. Per Spinoza Machiavelli è un “partigiano della libertà” e i suoi consigli sarebbero rivolti al popolo con l’intenzione forse “di dimostrare quanto un popolo libero debba stare attento di non affidare in modo assoluto la propria sorte ad un nome solo.”2 Per Rousseau interesse del Principe è che il popolo sia potente poiché “questa potenza, essendo la sua lo rendesse temibile ai vicini” o ai nemici sia interni che esterni. Pertanto anche in questo caso i consigli di Machiavelli sarebbero rivolti ad un Principe che sia forte della propria legittima sovranità, pertanto ad un corpo repubblicano e non a un tiranno. Per Rousseau, Machiavelli “fingendo una lezione ai re, ha dato una gran lezione ai popoli.” Per questo “Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani!”3

Secondo Raymond Aron “Rousseau e Spinoza, che vogliono riabilitare Machiavelli e farne un campione di repubblicanesimo, un difensore della libertà, non hanno del tutto torto nel senso in cui si può distinguere tra antichi e moderni in materia di libertà; eppure, come dice Aron, semplificano e fanno la caricatura di un pensiero ben altrimenti ricco e sottile. Egli non manifestò per Cesare Borgia un ammirazione fasulla.”4

Machiavelli pensava certamente ad un popolo virtuoso, ma l’esercizio della virtù del popolo corrispondeva meno a quello della res pubblica che a quello res privata o della tirannide. D’altra parte l’esercizio della virtù in un sistema che non conosce il valore e il senso della libertà per l’impresa umana, o del libero arbitrio, per rimanere coi tempi. L’esercizio e la realizzazione delle virtù in un tale sistema chiuso risulta impossibile non soltanto agli occhi di noi moderni ma contraddice ciò che Aristotele stesso sosteneva sulla realizzazione delle virtù umane.

“Da Machiavelli in poi, le tecniche di conquista e di esercizio del potere hanno acquistato in raffinatezza e razionalità. Ciò che dipendeva dalla capacità personale di improvvisazione, dalla spontaneità, è ormai oggetto di studi scientifici che a loro volta stanno alla base di pratiche d’azione ben ponderate. La conquista delle masse o la persuasione clandestina, l’organizzazione dell’entusiasmo o il lavaggio del cervello offrono ai Principi un arsenale di armamenti psicologici d’incomparabile ricchezza.”5

Machiavelli è quindi considerato a ragione tra i fondatori delle scienze della politica. Ma se vogliamo un po’ banalizzare, in ottica di micro strutture la teoria di Machiavelli è adatta alla gestione di qualunque gruppo che realizzala la coesione sociale non sul consenso rispetto ad una condivisione di obiettivi e di valori; ma realizza la coesione sulla gestione della paura o addirittura il terrore degli affiliati, e sulla idolatria del capo che controlla su tutto attraverso l’uso scientifico dell’inganno e della simulazione e della violenza psicologica ma, nel caso, anche fisica; ma è un potere che vive sulla costante minaccia del complotto, della delazione e del tradimento e la costante minaccia di cadere in disgrazia sia del Principe stesso che di ogni singolo. In chiave di macro strutture la teoria di Machiavelli fornisce gli strumenti per la gestione autoritaria della cosa pubblica, ciò al di là della natura repubblicana del Principe o dell’essere soggetto collettivo, ciò che si impone è sempre che le istanze individuali e il libero arbitrio si dissolvono in una istanza collettiva sia essa Stato o Popolo.

Si tratta di un istanza e un’arte di governo che è quanto più distante dalla democrazia e dai valori liberali, come dalle virtù umane, intese in senso di realizzazione di quelle che Aristotele considerava le eccellenze umane, e dalla pace che sarebbe disastrosa se oggi fosse applicata alla gestione di una qualunque attività organizzata finalizzata a conseguire obiettivi sociali o economici.

1 Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXI, p. 109.
2 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, p. 216.
3 J. J. Rousseau, Il contratto sociale, Laterza p. 144.
4 R. Aron, La politica, la potenza e la storia, il Mulino, p. 119.
5 R. Aron, La politica, la potenza e la storia, il Mulino, p. 128.

mercoledì 6 febbraio 2019

Erasmo da Rotterdam VS Machiavelli. 0.1. Machiavelli: Il Principe. Realismo politico e potere della paura

Secondo Max Horkheimer1 sia Machiavelli che Hobbes sono “teorici del potere politico” nel senso in cui, indipendentemente dalla “forma” dello Stato, ciò che è essenziale nella loro riflessione è “l’esistenza fattuale di qualunque forte potere costituito”2. In definitiva, sono teorici del potere, inteso come dominio e controllo di un sistema finalizzato alla propria auto affermazione.

Bisogna vedere la realtà quale essa è, non quale si vorrebbe che fosse, in questa frase si manifesta il civismo, lo spirito scientifico, o meglio il realismo di Machiavelli. Se di spirito scientifico si parla, allora, in senso weberiano, si potrebbe accogliere l’idea secondo cui la razionalità della scelta dei mezzi non dà garanzia rispetto alla moralità non soltanto nel mezzo scelto, ma probabilmente anche rispetto allo stesso fine. Se quella di Machiavelli può essere considerata scienza politica, lo è in senso forte rispetto al fatto per cui l’azione potrebbe essere anche immorale in conseguenza di una valutazione amorale della realtà storico politica. In tal senso Machiavelli voleva essere amorale, una amoralità che può sfociare perfino nell’immoralità; per questo il suo pensiero risulta equivoco e di difficile interpretazione innanzi tutto nel momento in cui si vogliono confondere i due livelli: quello cosiddetto scientifico e quello morale ed etico. La ricerca di una cifra per studiare scientificamente i fatti politici e sociale caratterizzò l’epoca che visse a cavallo tra la magia e le scoperte provenienti da un nuovo pensiero che voleva sfidare il mondo chiuso dell’epoca medievale: i nuovi mondi e le scoperte della tecnica segnarono nuovi orizzonti per la conoscenza in ogni campo, di questo nuovo spirito partecipò la riflessione sull’impresa sociale dell’umanità e le istituzioni politiche.3 Riteniamo però che l’ambiguità di cui parla Aron può essere difficilmente superata, poiché essa riguarda il pensiero di Machiavelli stesso e il fatto che la sua concezione, realistica, razionale, dei rapporti di potere hanno come premessa quello che rimane un giudizio morale sulla natura umana, la “triste natura umana”, un giudizio negativo che rimane pur sempre un giudizio morale e non fattuale.

Nell’ambiguità che avvolge tutta la nuova era il realismo politico caratterizza anche il trapasso dal clima politico di apertura e tolleranza dell’epoca, ispirato ed idealista del Rinascimento, al clima politico della Controriforma segnato dalla chiusura e dall’intolleranza, ispirato alla concretezza dell’interesse dei ceti borghesi che ormai si erano affacciati al potere tenendo in mano i cordoni della borsa di una nobiltà sempre più indebitata e corrotta. Nel 1542 viene istituita l’Inquisizione, nel 1543 la censura nell’arte, dove, oltre al soggetto, anche la scelta dei colori subisce il controllo delle autorità, e sulla stampa; mentre nel 1545 si apre il Concilio di Trento che decise d’autorità su ogni disputa della scolastica medievale, segnando così la fine di ogni spirito liberale nella riflessione teologica; così nella concezione religiosa e nella la vita ecclesiastica. Dopo il fallimento dei tentativi di riforma morale della dei ceti ecclesiastici, si impone, con atteggiamento militante, la restaurazione del cattolicesimo attraverso l’autorità e la forza. Comincia la persecuzione degli umanisti. Il nuovo indirizzo contraddistinto dallo spirito del fanatismo restauratore trova il suo culmine nella fondazione della Compagnia di Gesù, considerata modello di rigorismo religioso e della disciplina ecclesiastica: prima attuazione di un’idea di totalitarismo che prende corpo, come di riflesso, alla luce della società moderna. Il fine santifica i mezzi: questa la massima che rappresenta il supremo trionfo del realismo politico ed esprime con nettezza il carattere del secolo. Il nuovo pensiero, il razionalismo, già nelle sue origini, risulta ambiguamente intrecciato con quella che è la sua negazione: l’intolleranza verso la libertà dello spirito.

Come per Shakespeare nell’arte drammatica, Machiavelli, in questo scenario, è colui che ha fornito la prima teorizzazione dell’ambiguità dello spirito del secolo: un nuovo sentire di cui ha illustrato il progetto politico. In Machiavelli la dottrina del razionalismo politico ha avuto il suo primo teorico con la formulazione consapevole e la legittimazione piena della prassi politica del calcolo realistico nell’interesse dell’attore politico attraverso la comprensione dei fenomeni individuali e collettivi di relazione e sottomissione col potere. Parallelamente alla teoria, la storia si esemplificava nelle espressioni politiche e nei misfatti dei tempi, dove un difensore e scudo della Chiesa Cattolica poteva proteggere e, al contempo, minacciare la vita del Santo Padre facendo addirittura devastare la capitale della cristianità.4 La teoria di Machiavelli dimostrava che la realtà obbediva ad una rigida necessità, quella stessa necessità che andava imponendosi con la sua logica inesorabile del calcolo razionale dalla realizzazione dell’interesse nel capitalismo mercantile.

La paura, un’emozione che presiede alle pulsioni più remote del cervello degli esseri viventi, che risponde alla necessità di sicurezza e protezione di ogni organismo vivente evoluto; la paura, il controllo della paura, è la chiave per il dominio dell’umanità. Ma la paura non è il male, ma la paura è l’angoscia che la potenziale realizzazione del male provoca nella coscienza del vivente. In questo vuoto e oscuro margine che si distende tra la paura e la possibilità del male, si annulla il senso delle cose e il valore delle relazioni che diventano ambigue e minacciose; in questo vuoto sia Machiavelli, sia Hobbes, collocano le relazioni con il potere e la realizzazione del potere politico. Un potere che nasce dalle nuove esigenze di affermazione della società moderna; un potere che, appunto, si esprime come dominio sulle passioni umane da realizzare attraverso il monopolio e controllo della paura, o delle paure che provengono dalla “naturale” propensione al male degli uomini. Il controllo della paura, come ben sapeva Hobbes, si realizza in un solo modo: il monopolio della sicurezza (e della paura) e il dosaggio e la sapiente diffusione di questa nella società, come nella psiche degli esseri viventi. Infatti è solo attraverso questo sapiente dosaggio che si può ingenerare quel bisogno specifico di sicurezza che alla fine consente il controllo e la sottomissione degli uomini.

Il pessimismo sulla natura umana è la premessa assoluta per la legittimazione di ogni azione che conduca alla manifestazione del potere dell’uomo sugli uomini, “perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni”, ed è la necessità che che soggioga la triste natura umana attraverso la forza e l’inganno visto che “sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.”. (Il Principe, cap. XV, p. 81)

Machiavelli, partendo da questa concezione pessimista della natura umana e del bisogno di socialità, una socialità che nasce dal bisogno di protezione, fa appello alle capacità del Principe di dominio sui sudditi e dell’essere umano attraverso il governo della più triste delle passioni. Un dominino che si deve esprimere attraverso il potere della paura usato, ad arte nell’inganno e nel tradimento, che rappresenta lo strumento più potente nelle mani del Principe. Il fine in questo caso non sembra essere il benessere della specie umana, perché ciò vorrebbe dire fine della paura; ma il mantenimento del potere, attraverso l’uso sapiente di questa fondamentale emozione. Questo potere deve saper mantenere un equilibrio tra le passioni negative in modo da non suscitare quei sommovimenti che metterebbero a repentaglio il potere stesso e quindi il Principe. La virtù del Principe è il governo di queste passioni finalizzato ad ottenere il massimo di utilità per lo Stato in termini di sostenibilità del potere.

Nel formulare una teoria del potere Machiavelli, come già Hobbes, tratta i fatti, la realtà, con il nuovo metodo scientifico: il dominio della paura, che contiene in sé, ed espande in modo pervasivo, la dicotomia piacere/dolore, sulle scelte umane è un fatto “calcolabile”. Pertanto, è su tale “calcolo” che bisogna agire per orientare o dominare il comportamento umano e delle società umane. La teoria del potere è una teoria ispirata al razionalismo, o meglio al calcolo razionalista, e allude già all’avvento dell’Illuminismo e dell’utilitarismo, attraverso una preciso uso della potere della conoscenza che si sottende alla forza razionalizzante della società industriale e della tecnica su tutti gli aspetti dell’organizzazione e della vita degli uomini.

“L’illuminismo è totalitario” dicono Horkheimer e Adorno. Con l’illuminismo l’intelletto che vince la superstizione comanda sulla natura disincantata. “Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell’asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell’economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, così di tutti gli operatori senza riguardo alla loro origine. … La tecnica è l’essenza di questo sapere. … Ciò che non si spiega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. … il numero divenne il canone dell’illuminismo. Le stesse equazioni dominano la giustizia borghese e lo scambio di merci. … La società borghese è dominata dall’equivalente. Essa rende comparabile l’eterogeneo riducendolo a grandezze astratte. Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa, per l’illuminismo, apparenza; il positivismo moderno lo confina nella letteratura. … La molteplicità delle figure è ridotta alla posizione e all’ordinamento, la storia al fatto, le cose alla materia.”5 Machiavelli è un interprete di questo illuminismo che potremmo definire “riduzionista” o “monista”.

Sul riduzionismo e il potere della conoscenza scientifica nasce la contrapposizione tra scienze della natura e scienze dello spirito, tra razionalismo e intuizionismo, tra mente e corpo. Una contrapposizione che considera in modo separato delle entità che separate non sono, se non nella nostra razionale esigenza di mettere ordine nella natura che dimentica che la scienza non è un oggetto particolare, ma un metodo per accedere alla conoscenza della natura, come alla previsione e alla relazione con gli eventi. Esiste per questo una possibilità di conciliazione tra questi due ambiti, una possibilità che non cambia il posto della scienza, ma cambia il posto alle cosiddette scienze dello spirito, ponendole in una prospettiva che non è contrapposta alle istanze della scienza e al contempo non rappresenta una riduzione a quella perniciosa uguaglianza, all’unità, di cui parlava Horkheimer.

Esiste una diversa via, una via prometeica più positiva rispetto al destino e alla natura umana; una via che conduce al progresso e allo sviluppo della tecnica, una via non riduzionista e non “totalitaria”, è la via che Erasmo indica al suo Principe. Si tratta di una via che arriva fino a Kant e poi prosegue fino al cognitivismo e al costruttivismo, una via che considera l’umanità e l’essere umano come fine e non come mezzo.

1 Max Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia. Da Machiavelli a Hegel, Einaudi, Torino 1978.
2 Ibidem p. 27.
3 Raymond Aron, La politica, la guerra, la storia, Il Mulino, p. 119.
4 Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi p. 403.
5 Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1976, pp. 12-15.

Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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