Allo scopo di rendere conto dei valori della società e del bene realizzato dalla giustizia, la terza parte della Teoria della giustizia, Rawls, si occupa di presentare in maniera dettagliata e attraverso una “prospettiva più generale” la “Teoria del bene”.
La finalità del capitolo è di fornire un “fondamento più saldo” ad una teoria, quella del bene, che è stata usata in precedenza nella Teoria per “definire i beni principali e gli interessi della persone nella posizione originaria” .
(Ricordiamo che la definizione dei beni originari è fondamentale per rispondere alla domanda utilitarista rispetto a “quali interessi?”; una domanda che pare essere considerata il punto debole dell’utilitarismo).
Obiettivo della riflessione è di stabilire le congruenze tra la “giustizia” e la “bontà” nel contesto di una “società bene ordinata” attraverso la parabola di una “psicologia morale” e dell’acquisizione del “sentimento di giustizia”. Pertanto, l’ultima parte della teoria del bene vuole spiegare come la Teoria è collegata, o si collega, ai valori sociali e al bene della collettività, senza tuttavia esplicitare quell’anello mancante che verrà riformulato da Rawls un ventennio dopo la stesura della Teoria della Giustizia.
“il bene di una persona è determinato da ciò che per essa rappresenta il piano di vita più razionale, date circostanze ragionevolmente favorevoli”. Bisogna innanzitutto domandarsi se “il piano di vita più razionale” corrisponda con l’interesse nei termini utilitaristi. Se così fosse allora il concetto si potrebbe formulare nei termini seguenti “il bene di una persona è rappresentato dal suo interesse più razionale”. Tuttavia non ci sembra che il “bene di una persona” possa essere considerato omologo all’interesse in termini di utilità. Infatti il punto discriminante rispetto all’utilitarismo non sta nella concezione della razionalità, ma nella definizione del bene che, per Rawls, racchiude una estensione che, a nostro avviso, va oltre quella di calcolo razionale, per interessare direttamente una definizione dei valori e per la quale Rawls fa riferimento direttamente ad Aristotele, secondo cui “il bene dell’uomo consiste in una attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta.” (p.20, Etica Nicomachea), inoltre, dice ancora Aristotele, la felicità è il bene più degno che si possa scegliere ed è “manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute” (p. 19, Etica Nicomachea). Quindi, in una persona il bene corrisponde alla felicità o, potremmo dire, alla ricerca della felicità. La felicità aristotelica non è traducibile con il moderno amusement, si tratta piuttosto della felicità come esercizio delle virtù più propriamente umane; infatti felicità è per Aristotele “un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù” mentre di tutti gli altri beni si può dire che “alcuni le appartengono di necessità, altri invece hanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti” (Etica Nicomachea p. 25) Una attività conforme a virtù è quella che realizza al meglio le proprie migliori vocazioni umane nei campi dove questi si esprimono. Il bene supremo dell’uomo è la felicità in quanto la felicità è un bene che noi perseguiamo per sé stesso e mai in vista di qualche altro bene; quindi la felicità è il bene assoluto, il perseguimento di tale forma di felicità assoluta non è che l’espressione più libera della propria vocazione umana.
Felicità, in sostanza, è quella che noi chiamiamo saggezza in un certo modo, ma che è anche la realizzazione del proprio talento e vocazione in quella che Aristotele considera la realizzazione della propria natura umana rispetto a ciò che l’individuo considera la propria eccellenza, cioè la realizzazione della parte migliore di sé stessi. Pertanto una linea fondamentale di discrimine tra Rawls e l’utilitarismo è rappresentata da una diversa concezione del bene e quindi delle finalità dell’azione umana.
Ma ad un primo approccio questa differenza potrebbe semplicemente essere considerata rispetto a un diverso vincolo di razionalità, che in Rawls farebbe riferimento al “contratto sociale”, mentre nell’utilitarismo il vincolo sarebbe nella razionalità tra mezzo e fine considerato come utilità. In questi termini la Teoria perderebbe, a nostro avviso, ogni connotazione di tipo liberale per ascriversi alle teorie politiche della società chiusa. Quindi se vogliamo mantenere la terminologia tradizionale, si potrebbe dire che la differenza tra utilitarismo e il contrattualismo di John Rawls consiste, in senso più forte, nella differenza tra una teoria che definisce l’azione politica in funzione dell’interesse o utilità e una teoria che definisce l’azione politica in funzione del “bene” nel senso in cui si è detto sopra. In termini minimali ciò che trasforma l’utilità individuale in un bene potrebbe essere considerato il vincolo sociale rispetto alla sua realizzazione e alla sua definizione. Ciò andrebbe ancora bene per la prima definizione della teoria di Rawls, in cui la scelta viene considerata vincolata esclusivamente alla condizione di “ignoranza”, ovvero della scelta sotto il velo di ignoranza. Ma nella riformulazione della teoria, Rawls, oltre al metodo di definizione della scelta, individua la presenza, nel gioco della scelta, di due valori fondamentali che orientano la scelta dell’individuo sotto il velo di ignoranza: i due “poteri morali” intesi come “capacità di avere senso di giustizia e quella di concepire il bene”, che le persone possiedono e che gli consentono di essere “membro di una società politica, vista a sua volta come equo sistema di cooperazione sociale da una generazione alla successiva”.
I due poteri morali non appartengono all’ambito delle scelte sotto il velo di ignoranza, ma sono condizioni costitutive e preliminari delle scelte. In tal senso la “socialità” non nasce soltanto dalla razionalità del calcolo in una teoria dei giochi che potrebbe sembrare una variante del dilemma del prigioniero; ma nasce da una condizione sottostante (intuitiva?) che realizza la moralità. Infatti, dice Rawls, “…possiamo dire che fa parte della natura essenziale del cittadino (all’interno della concezione politica) il possesso dei due poteri morali che stanno alla radice della sua capacità di impegnarsi in una cooperazione sociale equa.” I principi di giustizia, conseguenti in senso logico, ai due poteri morali, rappresentano poi l’atto costitutivo fondamentale che regola in modo costitutivo l’impegno in una “cooperazione sociale equa” da una generazione alla successiva.
Quindi l’idea di bene è qualcosa di diverso rispetto all’idea di “interesse”; e prescinde dalla concezione della razionalità che, nel contrattualismo liberale, o meglio nel liberalismo politico, dove “politico” sostituisce “contratto sociale”, rawlsiano sarebbe da considerare esclusivamente come limite del vincolo sociale rispetto alle scelte. Un vincolo che, in ogni caso, non verrebbe preso in considerazione dagli utilitaristi, essendo per questi la società una risultante, se non addirittura una finzione.
In conclusione possiamo distinguere due livelli logici nella teoria della scelta sotto il velo di ignoranza rawlsiano: un primo livello, da Rawls teorizzato più tardi, che attiene ad una sorta di condizione morale che fa riferimento alla concezione della virtù aristotelica; e un secondo livello, in cui avviene la scelta, e che riguarda le condizioni di socialità dovuti al velo di ignoranza, un velo che tuttavia non si stende fino all’ignoranza dei due “poteri morali”.
Il centro della teoria rawlsiana è quindi quella della formulazione di una concezione politica della giustizia e di un bene politico comune a tutti i membri della comunità attraverso il quale vengono promosse le migliori qualità morali degli individui in quanto appartenenti a questa comunità. I principi di giustizia, compreso il principio di differenza, non vanno quindi intesi come programmi per la distribuzione di risorse ma come strutture di base che rendono possibile la realizzazione delle qualità morali degli individui e del pluralismo realizzabile, da generazione in generazione, attraverso una forma di consenso per “intersezione” quale modalità di gestione democratica delle diverse visioni “comprensive”.
La finalità del capitolo è di fornire un “fondamento più saldo” ad una teoria, quella del bene, che è stata usata in precedenza nella Teoria per “definire i beni principali e gli interessi della persone nella posizione originaria” .
(Ricordiamo che la definizione dei beni originari è fondamentale per rispondere alla domanda utilitarista rispetto a “quali interessi?”; una domanda che pare essere considerata il punto debole dell’utilitarismo).
Obiettivo della riflessione è di stabilire le congruenze tra la “giustizia” e la “bontà” nel contesto di una “società bene ordinata” attraverso la parabola di una “psicologia morale” e dell’acquisizione del “sentimento di giustizia”. Pertanto, l’ultima parte della teoria del bene vuole spiegare come la Teoria è collegata, o si collega, ai valori sociali e al bene della collettività, senza tuttavia esplicitare quell’anello mancante che verrà riformulato da Rawls un ventennio dopo la stesura della Teoria della Giustizia.
“il bene di una persona è determinato da ciò che per essa rappresenta il piano di vita più razionale, date circostanze ragionevolmente favorevoli”. Bisogna innanzitutto domandarsi se “il piano di vita più razionale” corrisponda con l’interesse nei termini utilitaristi. Se così fosse allora il concetto si potrebbe formulare nei termini seguenti “il bene di una persona è rappresentato dal suo interesse più razionale”. Tuttavia non ci sembra che il “bene di una persona” possa essere considerato omologo all’interesse in termini di utilità. Infatti il punto discriminante rispetto all’utilitarismo non sta nella concezione della razionalità, ma nella definizione del bene che, per Rawls, racchiude una estensione che, a nostro avviso, va oltre quella di calcolo razionale, per interessare direttamente una definizione dei valori e per la quale Rawls fa riferimento direttamente ad Aristotele, secondo cui “il bene dell’uomo consiste in una attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta.” (p.20, Etica Nicomachea), inoltre, dice ancora Aristotele, la felicità è il bene più degno che si possa scegliere ed è “manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute” (p. 19, Etica Nicomachea). Quindi, in una persona il bene corrisponde alla felicità o, potremmo dire, alla ricerca della felicità. La felicità aristotelica non è traducibile con il moderno amusement, si tratta piuttosto della felicità come esercizio delle virtù più propriamente umane; infatti felicità è per Aristotele “un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù” mentre di tutti gli altri beni si può dire che “alcuni le appartengono di necessità, altri invece hanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti” (Etica Nicomachea p. 25) Una attività conforme a virtù è quella che realizza al meglio le proprie migliori vocazioni umane nei campi dove questi si esprimono. Il bene supremo dell’uomo è la felicità in quanto la felicità è un bene che noi perseguiamo per sé stesso e mai in vista di qualche altro bene; quindi la felicità è il bene assoluto, il perseguimento di tale forma di felicità assoluta non è che l’espressione più libera della propria vocazione umana.
Felicità, in sostanza, è quella che noi chiamiamo saggezza in un certo modo, ma che è anche la realizzazione del proprio talento e vocazione in quella che Aristotele considera la realizzazione della propria natura umana rispetto a ciò che l’individuo considera la propria eccellenza, cioè la realizzazione della parte migliore di sé stessi. Pertanto una linea fondamentale di discrimine tra Rawls e l’utilitarismo è rappresentata da una diversa concezione del bene e quindi delle finalità dell’azione umana.
Ma ad un primo approccio questa differenza potrebbe semplicemente essere considerata rispetto a un diverso vincolo di razionalità, che in Rawls farebbe riferimento al “contratto sociale”, mentre nell’utilitarismo il vincolo sarebbe nella razionalità tra mezzo e fine considerato come utilità. In questi termini la Teoria perderebbe, a nostro avviso, ogni connotazione di tipo liberale per ascriversi alle teorie politiche della società chiusa. Quindi se vogliamo mantenere la terminologia tradizionale, si potrebbe dire che la differenza tra utilitarismo e il contrattualismo di John Rawls consiste, in senso più forte, nella differenza tra una teoria che definisce l’azione politica in funzione dell’interesse o utilità e una teoria che definisce l’azione politica in funzione del “bene” nel senso in cui si è detto sopra. In termini minimali ciò che trasforma l’utilità individuale in un bene potrebbe essere considerato il vincolo sociale rispetto alla sua realizzazione e alla sua definizione. Ciò andrebbe ancora bene per la prima definizione della teoria di Rawls, in cui la scelta viene considerata vincolata esclusivamente alla condizione di “ignoranza”, ovvero della scelta sotto il velo di ignoranza. Ma nella riformulazione della teoria, Rawls, oltre al metodo di definizione della scelta, individua la presenza, nel gioco della scelta, di due valori fondamentali che orientano la scelta dell’individuo sotto il velo di ignoranza: i due “poteri morali” intesi come “capacità di avere senso di giustizia e quella di concepire il bene”, che le persone possiedono e che gli consentono di essere “membro di una società politica, vista a sua volta come equo sistema di cooperazione sociale da una generazione alla successiva”.
I due poteri morali non appartengono all’ambito delle scelte sotto il velo di ignoranza, ma sono condizioni costitutive e preliminari delle scelte. In tal senso la “socialità” non nasce soltanto dalla razionalità del calcolo in una teoria dei giochi che potrebbe sembrare una variante del dilemma del prigioniero; ma nasce da una condizione sottostante (intuitiva?) che realizza la moralità. Infatti, dice Rawls, “…possiamo dire che fa parte della natura essenziale del cittadino (all’interno della concezione politica) il possesso dei due poteri morali che stanno alla radice della sua capacità di impegnarsi in una cooperazione sociale equa.” I principi di giustizia, conseguenti in senso logico, ai due poteri morali, rappresentano poi l’atto costitutivo fondamentale che regola in modo costitutivo l’impegno in una “cooperazione sociale equa” da una generazione alla successiva.
Quindi l’idea di bene è qualcosa di diverso rispetto all’idea di “interesse”; e prescinde dalla concezione della razionalità che, nel contrattualismo liberale, o meglio nel liberalismo politico, dove “politico” sostituisce “contratto sociale”, rawlsiano sarebbe da considerare esclusivamente come limite del vincolo sociale rispetto alle scelte. Un vincolo che, in ogni caso, non verrebbe preso in considerazione dagli utilitaristi, essendo per questi la società una risultante, se non addirittura una finzione.
In conclusione possiamo distinguere due livelli logici nella teoria della scelta sotto il velo di ignoranza rawlsiano: un primo livello, da Rawls teorizzato più tardi, che attiene ad una sorta di condizione morale che fa riferimento alla concezione della virtù aristotelica; e un secondo livello, in cui avviene la scelta, e che riguarda le condizioni di socialità dovuti al velo di ignoranza, un velo che tuttavia non si stende fino all’ignoranza dei due “poteri morali”.
Il centro della teoria rawlsiana è quindi quella della formulazione di una concezione politica della giustizia e di un bene politico comune a tutti i membri della comunità attraverso il quale vengono promosse le migliori qualità morali degli individui in quanto appartenenti a questa comunità. I principi di giustizia, compreso il principio di differenza, non vanno quindi intesi come programmi per la distribuzione di risorse ma come strutture di base che rendono possibile la realizzazione delle qualità morali degli individui e del pluralismo realizzabile, da generazione in generazione, attraverso una forma di consenso per “intersezione” quale modalità di gestione democratica delle diverse visioni “comprensive”.
1
John Rawls, Una Teoria della Giustizia, Feltrinelli 1982, p.
327.
2
John Rawls, Giustizia come equità, 2001. Ed italiana,
Feltrinelli, 2002, p. 223.