mercoledì 6 febbraio 2019

Erasmo da Rotterdam VS Machiavelli. 0.1. Machiavelli: Il Principe. Realismo politico e potere della paura

Secondo Max Horkheimer1 sia Machiavelli che Hobbes sono “teorici del potere politico” nel senso in cui, indipendentemente dalla “forma” dello Stato, ciò che è essenziale nella loro riflessione è “l’esistenza fattuale di qualunque forte potere costituito”2. In definitiva, sono teorici del potere, inteso come dominio e controllo di un sistema finalizzato alla propria auto affermazione.

Bisogna vedere la realtà quale essa è, non quale si vorrebbe che fosse, in questa frase si manifesta il civismo, lo spirito scientifico, o meglio il realismo di Machiavelli. Se di spirito scientifico si parla, allora, in senso weberiano, si potrebbe accogliere l’idea secondo cui la razionalità della scelta dei mezzi non dà garanzia rispetto alla moralità non soltanto nel mezzo scelto, ma probabilmente anche rispetto allo stesso fine. Se quella di Machiavelli può essere considerata scienza politica, lo è in senso forte rispetto al fatto per cui l’azione potrebbe essere anche immorale in conseguenza di una valutazione amorale della realtà storico politica. In tal senso Machiavelli voleva essere amorale, una amoralità che può sfociare perfino nell’immoralità; per questo il suo pensiero risulta equivoco e di difficile interpretazione innanzi tutto nel momento in cui si vogliono confondere i due livelli: quello cosiddetto scientifico e quello morale ed etico. La ricerca di una cifra per studiare scientificamente i fatti politici e sociale caratterizzò l’epoca che visse a cavallo tra la magia e le scoperte provenienti da un nuovo pensiero che voleva sfidare il mondo chiuso dell’epoca medievale: i nuovi mondi e le scoperte della tecnica segnarono nuovi orizzonti per la conoscenza in ogni campo, di questo nuovo spirito partecipò la riflessione sull’impresa sociale dell’umanità e le istituzioni politiche.3 Riteniamo però che l’ambiguità di cui parla Aron può essere difficilmente superata, poiché essa riguarda il pensiero di Machiavelli stesso e il fatto che la sua concezione, realistica, razionale, dei rapporti di potere hanno come premessa quello che rimane un giudizio morale sulla natura umana, la “triste natura umana”, un giudizio negativo che rimane pur sempre un giudizio morale e non fattuale.

Nell’ambiguità che avvolge tutta la nuova era il realismo politico caratterizza anche il trapasso dal clima politico di apertura e tolleranza dell’epoca, ispirato ed idealista del Rinascimento, al clima politico della Controriforma segnato dalla chiusura e dall’intolleranza, ispirato alla concretezza dell’interesse dei ceti borghesi che ormai si erano affacciati al potere tenendo in mano i cordoni della borsa di una nobiltà sempre più indebitata e corrotta. Nel 1542 viene istituita l’Inquisizione, nel 1543 la censura nell’arte, dove, oltre al soggetto, anche la scelta dei colori subisce il controllo delle autorità, e sulla stampa; mentre nel 1545 si apre il Concilio di Trento che decise d’autorità su ogni disputa della scolastica medievale, segnando così la fine di ogni spirito liberale nella riflessione teologica; così nella concezione religiosa e nella la vita ecclesiastica. Dopo il fallimento dei tentativi di riforma morale della dei ceti ecclesiastici, si impone, con atteggiamento militante, la restaurazione del cattolicesimo attraverso l’autorità e la forza. Comincia la persecuzione degli umanisti. Il nuovo indirizzo contraddistinto dallo spirito del fanatismo restauratore trova il suo culmine nella fondazione della Compagnia di Gesù, considerata modello di rigorismo religioso e della disciplina ecclesiastica: prima attuazione di un’idea di totalitarismo che prende corpo, come di riflesso, alla luce della società moderna. Il fine santifica i mezzi: questa la massima che rappresenta il supremo trionfo del realismo politico ed esprime con nettezza il carattere del secolo. Il nuovo pensiero, il razionalismo, già nelle sue origini, risulta ambiguamente intrecciato con quella che è la sua negazione: l’intolleranza verso la libertà dello spirito.

Come per Shakespeare nell’arte drammatica, Machiavelli, in questo scenario, è colui che ha fornito la prima teorizzazione dell’ambiguità dello spirito del secolo: un nuovo sentire di cui ha illustrato il progetto politico. In Machiavelli la dottrina del razionalismo politico ha avuto il suo primo teorico con la formulazione consapevole e la legittimazione piena della prassi politica del calcolo realistico nell’interesse dell’attore politico attraverso la comprensione dei fenomeni individuali e collettivi di relazione e sottomissione col potere. Parallelamente alla teoria, la storia si esemplificava nelle espressioni politiche e nei misfatti dei tempi, dove un difensore e scudo della Chiesa Cattolica poteva proteggere e, al contempo, minacciare la vita del Santo Padre facendo addirittura devastare la capitale della cristianità.4 La teoria di Machiavelli dimostrava che la realtà obbediva ad una rigida necessità, quella stessa necessità che andava imponendosi con la sua logica inesorabile del calcolo razionale dalla realizzazione dell’interesse nel capitalismo mercantile.

La paura, un’emozione che presiede alle pulsioni più remote del cervello degli esseri viventi, che risponde alla necessità di sicurezza e protezione di ogni organismo vivente evoluto; la paura, il controllo della paura, è la chiave per il dominio dell’umanità. Ma la paura non è il male, ma la paura è l’angoscia che la potenziale realizzazione del male provoca nella coscienza del vivente. In questo vuoto e oscuro margine che si distende tra la paura e la possibilità del male, si annulla il senso delle cose e il valore delle relazioni che diventano ambigue e minacciose; in questo vuoto sia Machiavelli, sia Hobbes, collocano le relazioni con il potere e la realizzazione del potere politico. Un potere che nasce dalle nuove esigenze di affermazione della società moderna; un potere che, appunto, si esprime come dominio sulle passioni umane da realizzare attraverso il monopolio e controllo della paura, o delle paure che provengono dalla “naturale” propensione al male degli uomini. Il controllo della paura, come ben sapeva Hobbes, si realizza in un solo modo: il monopolio della sicurezza (e della paura) e il dosaggio e la sapiente diffusione di questa nella società, come nella psiche degli esseri viventi. Infatti è solo attraverso questo sapiente dosaggio che si può ingenerare quel bisogno specifico di sicurezza che alla fine consente il controllo e la sottomissione degli uomini.

Il pessimismo sulla natura umana è la premessa assoluta per la legittimazione di ogni azione che conduca alla manifestazione del potere dell’uomo sugli uomini, “perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni”, ed è la necessità che che soggioga la triste natura umana attraverso la forza e l’inganno visto che “sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.”. (Il Principe, cap. XV, p. 81)

Machiavelli, partendo da questa concezione pessimista della natura umana e del bisogno di socialità, una socialità che nasce dal bisogno di protezione, fa appello alle capacità del Principe di dominio sui sudditi e dell’essere umano attraverso il governo della più triste delle passioni. Un dominino che si deve esprimere attraverso il potere della paura usato, ad arte nell’inganno e nel tradimento, che rappresenta lo strumento più potente nelle mani del Principe. Il fine in questo caso non sembra essere il benessere della specie umana, perché ciò vorrebbe dire fine della paura; ma il mantenimento del potere, attraverso l’uso sapiente di questa fondamentale emozione. Questo potere deve saper mantenere un equilibrio tra le passioni negative in modo da non suscitare quei sommovimenti che metterebbero a repentaglio il potere stesso e quindi il Principe. La virtù del Principe è il governo di queste passioni finalizzato ad ottenere il massimo di utilità per lo Stato in termini di sostenibilità del potere.

Nel formulare una teoria del potere Machiavelli, come già Hobbes, tratta i fatti, la realtà, con il nuovo metodo scientifico: il dominio della paura, che contiene in sé, ed espande in modo pervasivo, la dicotomia piacere/dolore, sulle scelte umane è un fatto “calcolabile”. Pertanto, è su tale “calcolo” che bisogna agire per orientare o dominare il comportamento umano e delle società umane. La teoria del potere è una teoria ispirata al razionalismo, o meglio al calcolo razionalista, e allude già all’avvento dell’Illuminismo e dell’utilitarismo, attraverso una preciso uso della potere della conoscenza che si sottende alla forza razionalizzante della società industriale e della tecnica su tutti gli aspetti dell’organizzazione e della vita degli uomini.

“L’illuminismo è totalitario” dicono Horkheimer e Adorno. Con l’illuminismo l’intelletto che vince la superstizione comanda sulla natura disincantata. “Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell’asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell’economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, così di tutti gli operatori senza riguardo alla loro origine. … La tecnica è l’essenza di questo sapere. … Ciò che non si spiega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. … il numero divenne il canone dell’illuminismo. Le stesse equazioni dominano la giustizia borghese e lo scambio di merci. … La società borghese è dominata dall’equivalente. Essa rende comparabile l’eterogeneo riducendolo a grandezze astratte. Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa, per l’illuminismo, apparenza; il positivismo moderno lo confina nella letteratura. … La molteplicità delle figure è ridotta alla posizione e all’ordinamento, la storia al fatto, le cose alla materia.”5 Machiavelli è un interprete di questo illuminismo che potremmo definire “riduzionista” o “monista”.

Sul riduzionismo e il potere della conoscenza scientifica nasce la contrapposizione tra scienze della natura e scienze dello spirito, tra razionalismo e intuizionismo, tra mente e corpo. Una contrapposizione che considera in modo separato delle entità che separate non sono, se non nella nostra razionale esigenza di mettere ordine nella natura che dimentica che la scienza non è un oggetto particolare, ma un metodo per accedere alla conoscenza della natura, come alla previsione e alla relazione con gli eventi. Esiste per questo una possibilità di conciliazione tra questi due ambiti, una possibilità che non cambia il posto della scienza, ma cambia il posto alle cosiddette scienze dello spirito, ponendole in una prospettiva che non è contrapposta alle istanze della scienza e al contempo non rappresenta una riduzione a quella perniciosa uguaglianza, all’unità, di cui parlava Horkheimer.

Esiste una diversa via, una via prometeica più positiva rispetto al destino e alla natura umana; una via che conduce al progresso e allo sviluppo della tecnica, una via non riduzionista e non “totalitaria”, è la via che Erasmo indica al suo Principe. Si tratta di una via che arriva fino a Kant e poi prosegue fino al cognitivismo e al costruttivismo, una via che considera l’umanità e l’essere umano come fine e non come mezzo.

1 Max Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia. Da Machiavelli a Hegel, Einaudi, Torino 1978.
2 Ibidem p. 27.
3 Raymond Aron, La politica, la guerra, la storia, Il Mulino, p. 119.
4 Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi p. 403.
5 Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1976, pp. 12-15.

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