giovedì 7 febbraio 2019

Erasmo da Rotterdam VS Machiavelli. 0.2. Machiavelli: Il Principe, ovvero l’arte del despota

Homo homini lupus

Il pessimismo sulla natura umana è la premessa assoluta per la legittimazione di ogni azione che conduca alla manifestazione del potere dell’uomo sugli uomini, “perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni”, ed è la necessità che che soggioga la triste natura umana attraverso la forza e l’inganno visto che “sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.”. (Il Principe, cap. XV, p. 81)

Il Principe di Machiavelli non è un libero tra liberi come per Erasmo, ma assomiglia più allo stregone che vuole dominare la forza minacciosa di una natura malvagia. Il popolo è l’incarnazione di questa natura. Il popolo è il nemico di cui il Principe deve temere le insidie “…quel principe che ha più paura de’ populi che de’ forestieri, debbe fare le fortezze; ma quello che ha più paura de’ forestieri che de’ populi, debbe lasciarle indrieto. … la migliore fortezza che sia, è non essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze, et il populo ti abbi in odio, le non ti salvono; perché non mancano mai a’ populi, preso che li hanno l’armie forestieri che li soccorrino.” (Il Principe, cap. XX, p. 100)

Anche Machiavelli ritiene che il Principe debba essere saggio, ma la sua saggezza nasce dal pessimismo rispetto alla natura umana, dall’idea che l’uomo è portato a fare il male se non bene indirizzato :“il Principe deve essere saggio “uno principe, il quale non sia savio per sé stesso, non può essere consigliato bene”. E saper governare gli uomini e i suoi ministri per la sua saggezza e non il contrario, perché gli uomini, dice Machiavelli, sono sempre tristi cioè portati a fare il male piuttosto che il bene, se la necessità non li porta nella direzione contraria. “Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano.”

Una concezione pessimistica della natura umana: “consigliandosi con più d’uno, uno principe che non sia savio non arà mai e’ consigli uniti, non saprà per sé stesso unirli: de’ consiglieri, ciascuno penserà alla proprietà sua; lui non li saprà correggere, né conoscere. E non si possono trovare altrimenti; perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni. Però si conclude che li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del principe, e non la prudenza del principe da’ buoni consigli.1” (Il Principe, cap. XXI, p. 109)

L’astuzia: dominio sul popolo

Dominare la volontà del popolo per averne il consenso è lo strumento del potere di tutte le dittature dell’età moderna. In questa forma di dominio il corpo del Pirincipe si identifica con il corpo del popolo, questo è il nucleo populista di ogni dispotismo che in questa immediatezza abolisce ogni forma di intermediazione della rappresentanza dei portatori di interessi, considerando il corpo sociale come un unico soggetto e un’unica dimensione con cui rapportarsi e identificarsi: il popolo.


Ma il principe deve dominare il popolo da cui corre il rischio perenne di essere divorato. Infatti il Principe, contro il popolo deve usare l’astuzia. Un uso dell’astuzia al fine di mantenere il consenso e alta l’immagine presso il popolo “…molti iudicano che uno principe savio debbe, quando ne abbi la occasione, nutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne seguiti maggiore sua grandezza.” (Il Principe, cap. XV, p. 98)

Un Principe deve fare grandi cose e tenere occupato il popolo suscitando la continua ammirazione verso le sue imprese, ciò consente al Principe di tenere occupati “li animi” e acquistare “reputazione et imperio sopra di loro, che non se ne accorgevano”.

Quindi, “Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe, quanto fanno le grandi imprese e dare di sé rari esempli.” Fare quelle “cose grandi” le quali “…sempre hanno tenuto sospesi et ammirati li animi de’ sudditi e occupati nello evento di esse. Queste azioni non danno, “infra l’una e l’altra, spazio alli uomini di potere quietamente operarli contro. … E sopra tutto uno principe si debbe ingegnare dare di sé in ogni sua azione fama di uomo grande e di uomo eccellente.” (Il Principe, cap. XXI, p. 102)

Oltre che consigli di arte della politica, Machiavelli elargisce al Principe consigli su come mantenere il potere sul popolo. In questo deve essere liberale e riconoscere l’autonomia delle attività e delle arti perché da un popolo soddisfatto non avrà mai da temere. “Debbe ancora uno principe monstrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricultura, et in ogni altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare le sua possessione per timore che le li sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, et a qualunque pensa, in qualunque modo ampliare la sua città o il suo stato. Debbe, oltre a questo, ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste e spettaculi. E, perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma non di manco la maestà della dignità sua, perché questo non vuole mai mancare in cosa alcuna.” (Il Principe, cap. XXI, p. 105)

In questa perenne lotta per il mantenimento del potere contro gli spiriti malvagi provenienti dal popolo (altro che libero tra liberi, di Erasmo!), il fine giustifica i mezzi: “Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo”. (Il Principe, cap. XV, p. 83)

Quel principe che dà di sé questa opinione, è reputato assai… Perché uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni. Da questa si difende con le buone arme e con li buoni amici; e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando stieno ferme quelle di fuora, se già le non fussino perturbate da una congiura … Ma, circa sudditi, quando le cose di fuora non muovino, si ha a temere che non coniurino secretamente: di che el principe si assicura assai, fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi el populo satisfatto di lui … per tanto, che uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, quando el popolo li sia benivolo; ma, quando li sia inimico et abbilo in odio, debbe temere d’ogni cosa e d’ognuno. E li stati bene ordinati e li principi savi hanno con ogni diligenzia pensato di non desperare e’ grandi e di satisfare al populo e tenerlo con- tento; perché questa è una delle più importanti materie che abbia uno principe.” (Il Principe, cap. XV, p. 84)

Machiavelli si chiede se il Principe debba governare con la “fede”, col le leggi, o, diremmo noi con i valori, oppure con l’astuzia e con la forza. I Principi che hanno saputo fare grandi cose sono quelli che hanno aggirato con l’astuzia il cervello degli uomini, dice Machiavelli e conclude per un uso sapiente dei due elementi ma considera l’astuzia e la violenza come preminente nella capacità di mantenere un regno. Un pessimismo sulla natura umana che chiede il dominio della paura sulla ragione e su un bene comune che è visto soltanto come utilità e conferma e legittimazione del supremazia. “Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro.” (Il Principe, cap. XV, p. 81)

“Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.

Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano.

… quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.”. (Il Principe, cap. XV, p. 81)

Panemem et circenses

Panemem et circenses è la formula per il dominio del popolo. Un popolo di sudditi al di fuori della democrazia, e non di liberi come il popolo di Erasmo. Il Principe vuole che il suo popolo non versi in miseria, perché ciò diventa pericoloso per il mantenimento del potere e non per la realizzazione di quelle virtù come Aristotele vedeva come fine e causa della democrazia degli ateniesi. Bisogna dare al popolo il pane per scongiurarne l’ostilità, ma non la libertà. La libertà indispensabile alla virtù divine qui un fardello e un pericolo per il potere del Principe. L’attività umana serve a mantenere occupati i sudditi e la virtù è solo quella del principe, quale icona manieristica del cavaliere di fronte ai propri servi.

Apparire virtuoso e agire in modo illiberale, così il Principe deve prestare attenzione alle attività del suo popolo: “Debbe ancora uno principe monstrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricultura, et in ogni altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare le sua possessione per timore che le li sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, et a qualunque pensa, in qualunque modo ampliare la sua città o il suo stato. Debbe, oltre a questo, ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste e spettaculi. E, perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma non di manco la maestà della dignità sua, perché questo non vuole mai mancare in cosa alcuna.” (Il Principe, cap. XXI, p. 105)

Pragmatismo

Il Principe di Machiavelli si presenta con le caratteristiche opposte a quelle indicate da Erasmo. Per rimanere nell’ambito delle passioni, possiamo dire che nell’arte del governo Erasmo fa appello alle passioni positive attraverso le quali realizzare il benessere comuni e una società giusta. Machiavelli partendo da una concezione pessimista dell’umanità, fa appello alle capacità del Principe di dominio sui sudditi e dell’essere umano attraverso il governo di quelle che sono state definite come passioni tristi, un dominino che si deve esprimere attraverso il potere della paura che rappresenta lo strumento più potente nelle mani del Principe. Il fine in questo caso non sembra essere il benessere ma il mantenimento del potere, tuttavia questo potere deve saper mantenere un equilibrio tra le passioni negative in modo da non suscitare quei sommovimenti che metterebbero a repentaglio il potere stesso. La virtù del principe è il governo di queste passioni finalizzato ad ottenere il massimo di utilità per lo Stato.

In questo Machiavelli si richiama ad un certo realismo, o meglio ad un riduzionismo che, oggi, potremmo dire nichilista, rispetto alle qualità della natura umana, di contro alla “immaginazione” di alcuni filosofi che hanno descritto regni inesistenti: “sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa” (Il Principe, cap XV, p. 72). Non bisogna quindi perdere di vista quello che è e quello che si fa per seguire ciò che dovrebbe essere il mondo e cosa si dovrebbe fare. E quello che è ci dice non siamo buoni e se “uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.” (Il Principe, cap. XV, p. 72).

“tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude.”

“Debbe, per tanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi sua uniti et in fede; perché, con pochissimi esempli sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o rapine: perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare. Et intra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli.” (Il Principe, cap. XV, p. 77).

Evitare gli adulatori

Il Principe deve sapersi scegliere ministri e segretari: “Non è di poca importanzia a uno principe la elezione de’ ministri: li quali sono buoni o no, secondo la prudenzia del principe. E la prima coniettura che si fa del cervello d’uno signore, è vedere li uomini che lui ha d’intorno; e quando sono sufficienti e fedeli, sempre si può reputarlo savio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e mantenerli fideli. Ma, quando sieno altrimenti, sempre si può fare non buono iudizio di lui; perché el primo errore che fa, lo fa in questa elezione.” (Il Principe, cap. XXI, p. 105)

Ma ciò che interessa a Machiavelli non è il valore morale del collaboratore del Principe, ma la fedeltà [la contrapposizione tra Erasmo e Machiavelli risiede proprio in questa differente valutazione del referente umano che per Erasmo comprende la libertà e la dignità umana, e in questo è precursore dell’Illuminismo e della società moderna; mentre in Machiavelli è l’appartenenza della persona il feudale ”uomo di altri uomini”, una caratteristica del potere dispotico delle società arcaiche, del feudalesimo e della Signoria. In Machiavelli non esiste una concezione della individualità ed un’attribuzione di valore alla dignità e alla libertà umana. La persona è parte di un tutto, come nella metafora di Menenio Agrippa, e non è considerato detentore di libertà, né di diritti individuali; anzi, al contrario, la manifestazione di autonomia non è che un tradimento, a meno che questa non sia volta a rafforzare il potere del principe. In tal senso il Principe di Machiavelli può essere considerato un manuale per l’esercizio del dispotismo. Il margine della differenziazione tra principe e ministri, tra principe e sudditi è la realizzazione dell’utile: l’utile del principe è il mantenimento del proprio potere e la sua magnanimità è rivolta alla realizzazione di questo; il perseguimento di una utilità diversa è considerata come avversità e minaccia al potere del principe]

“Ma come uno principe possa conoscere el ministro, ci è questo modo che non falla mai. Quando tu vedi el ministro pensare più a sé che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca dentro l’utile suo, questo tale cosí fatto mai fia buono ministro, mai te ne potrai fidare: perché quello che ha lo stato d’uno in mano, non debbe pensare mai a sé, ma sempre al principe, e non li ricordare mai cosa che non appartenga a lui. E dall’altro canto, el principe, per mantenerlo buono, debba pensare al ministro, onorandolo, facendolo ricco, obligandoselo, participandoli li onori e carichi; acciò che vegga che non può stare sanza lui, e che li assai onori non li faccino desiderare più onori, le assai ricchezze non li faccino desiderare più ricchezze, li assai carichi li faccino temere le mutazioni. Quando dunque, e’ ministri e li principi circa ministri sono cosí fatti, possono confidare l’uno dell’altro; e quando altrimenti, il fine sempre fia dannoso o per l’uno o per l’altro.” (Il Principe, cap. XXI, p. 107)

Tuttavia il principe deve evitare gli adulatori e in ciò si presenta come un principe illuminato che concede libertà agli uomini saggi in grado di dire la verità e di consigliarlo senza adularlo. “non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che li uomini intendino che non ti offendino a dirti el vero; ma, quando ciascuno può dirti el vero, ti manca la reverenzia. Per tanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda, e non d’altro; ma debbe domandarli d’ogni cosa, e le opinioni loro udire; di poi deliberare da sé, a suo modo; e con questi consigli e con ciascuno di loro portarsi in modo, che ognuno cognosca che quanto più liberamente si parlerà, tanto più li fia accetto: fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare drieto alla cosa deliberata, et essere ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e’ precipita per li adulatori, o si muta spesso per la variazione de’ pareri: di che ne nasce la poca estimazione sua.” .” (Il Principe, cap. XXI, p. 108)

Farsi temere

Premesso il fatto minimo che il principe non deve attrarre su di sé l’odio da parte dei governati, e ciò potrebbe accadere soltanto se applicasse delle tassazioni inique volte a mantenere spese e sfarzo, ci si chiede quale debba essere, per il resto, il comportamento verso i governati. “Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina; perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma elle non si hanno, et a’ tempi non si possano spendere. E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro… quando el principe è con li eserciti et ha in governo multitudine di soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome non si tenne mai esercito unito né disposto ad alcuna fazione.” (Il Principe, cap. XV, p. 78-79).

Ponderante, in Machiavelli, è l’ambiguità tipica del periodo, la doppiezza; l’uso misurato della simulazione e della dissimulazione, l’inganno. La paura è il centro del dominio ed è la paura a dominare l’azione del principe: “uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni. Da questa si difende con le buone arme e con li buoni amici; e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando stieno ferme quelle di fuora, se già le non fussino perturbate da una congiura … Ma, circa sudditi, quando le cose di fuora non muovino, si ha a temere che non coniurino secretamente: di che el principe si assicura assai, fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi el populo satisfatto di lui … per tanto, che uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, quando el popolo li sia benivolo; ma, quando li sia inimico et abbilo in odio, debbe temere d’ogni cosa e d’ognuno. E li stati bene ordinati e li principi savi hanno con ogni diligenzia pensato di non desperare e’ grandi e di satisfare al populo e tenerlo contento; perché questa è una delle più importanti materie che abbia uno principe.” (Il Principe, cap. XV, p. 84)

Si potrebbe dire che Machiavelli teorizza quello che potremmo chiamare “gattopardismo”, un comportamento di fronte al cambiamento, che ha portato alla nascita degli stati nazionali, che senza dubbio ha contraddistinto la realtà storica e ha strutturato la nascita della coscienza politica in Italia anche dopo l’unità nazionale. Paradossalmente ciò che per Machiavelli poteva essere una idea forte di evocazione di un Principe in grado di far portare verso la costituzione di uno stato nazionale, mostra oggi, alla luce delle idee che considerano il progresso imprescindibile dalla presenza di una società fondata su valori liberali e sui principi dello stato di diritto e della democrazia; oggi proprio il machiavellismo mostra proprio quelle che sono state le debolezze costitutive nella nascita della nazione, debolezze che hanno portato sia Gobetti che Gramsci a parlare di Risorgimento incompiuto. Un limite della storia nazionale che nel secondo dopoguerra si è immaginato di poter superare nell’europeismo, un europeismo che, per diventare un progetto politico e un nuovo orizzonte di identità e condivisione per tutti i cittadini europei, non può non avere una dimensione che parta da quei valori già indicati nell’umanesimo erasmiano.

In ogni caso rimane aperta la discussione se quelli di Machiavelli sono consigli rivolti al despota oppure rivolti al popolo. In questo secondo caso il Principe non sarebbe un despota, un uomo solo al potere, ma Principe sarebbe soltanto il sovrano e Machiavelli affermando che la forza del principe è quella del suo popolo potrebbe essere considerato un sostenitore della repubblica e non della tirannide. La pensano così Spinoza e Rousseau. Per Spinoza Machiavelli è un “partigiano della libertà” e i suoi consigli sarebbero rivolti al popolo con l’intenzione forse “di dimostrare quanto un popolo libero debba stare attento di non affidare in modo assoluto la propria sorte ad un nome solo.”2 Per Rousseau interesse del Principe è che il popolo sia potente poiché “questa potenza, essendo la sua lo rendesse temibile ai vicini” o ai nemici sia interni che esterni. Pertanto anche in questo caso i consigli di Machiavelli sarebbero rivolti ad un Principe che sia forte della propria legittima sovranità, pertanto ad un corpo repubblicano e non a un tiranno. Per Rousseau, Machiavelli “fingendo una lezione ai re, ha dato una gran lezione ai popoli.” Per questo “Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani!”3

Secondo Raymond Aron “Rousseau e Spinoza, che vogliono riabilitare Machiavelli e farne un campione di repubblicanesimo, un difensore della libertà, non hanno del tutto torto nel senso in cui si può distinguere tra antichi e moderni in materia di libertà; eppure, come dice Aron, semplificano e fanno la caricatura di un pensiero ben altrimenti ricco e sottile. Egli non manifestò per Cesare Borgia un ammirazione fasulla.”4

Machiavelli pensava certamente ad un popolo virtuoso, ma l’esercizio della virtù del popolo corrispondeva meno a quello della res pubblica che a quello res privata o della tirannide. D’altra parte l’esercizio della virtù in un sistema che non conosce il valore e il senso della libertà per l’impresa umana, o del libero arbitrio, per rimanere coi tempi. L’esercizio e la realizzazione delle virtù in un tale sistema chiuso risulta impossibile non soltanto agli occhi di noi moderni ma contraddice ciò che Aristotele stesso sosteneva sulla realizzazione delle virtù umane.

“Da Machiavelli in poi, le tecniche di conquista e di esercizio del potere hanno acquistato in raffinatezza e razionalità. Ciò che dipendeva dalla capacità personale di improvvisazione, dalla spontaneità, è ormai oggetto di studi scientifici che a loro volta stanno alla base di pratiche d’azione ben ponderate. La conquista delle masse o la persuasione clandestina, l’organizzazione dell’entusiasmo o il lavaggio del cervello offrono ai Principi un arsenale di armamenti psicologici d’incomparabile ricchezza.”5

Machiavelli è quindi considerato a ragione tra i fondatori delle scienze della politica. Ma se vogliamo un po’ banalizzare, in ottica di micro strutture la teoria di Machiavelli è adatta alla gestione di qualunque gruppo che realizzala la coesione sociale non sul consenso rispetto ad una condivisione di obiettivi e di valori; ma realizza la coesione sulla gestione della paura o addirittura il terrore degli affiliati, e sulla idolatria del capo che controlla su tutto attraverso l’uso scientifico dell’inganno e della simulazione e della violenza psicologica ma, nel caso, anche fisica; ma è un potere che vive sulla costante minaccia del complotto, della delazione e del tradimento e la costante minaccia di cadere in disgrazia sia del Principe stesso che di ogni singolo. In chiave di macro strutture la teoria di Machiavelli fornisce gli strumenti per la gestione autoritaria della cosa pubblica, ciò al di là della natura repubblicana del Principe o dell’essere soggetto collettivo, ciò che si impone è sempre che le istanze individuali e il libero arbitrio si dissolvono in una istanza collettiva sia essa Stato o Popolo.

Si tratta di un istanza e un’arte di governo che è quanto più distante dalla democrazia e dai valori liberali, come dalle virtù umane, intese in senso di realizzazione di quelle che Aristotele considerava le eccellenze umane, e dalla pace che sarebbe disastrosa se oggi fosse applicata alla gestione di una qualunque attività organizzata finalizzata a conseguire obiettivi sociali o economici.

1 Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXI, p. 109.
2 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, p. 216.
3 J. J. Rousseau, Il contratto sociale, Laterza p. 144.
4 R. Aron, La politica, la potenza e la storia, il Mulino, p. 119.
5 R. Aron, La politica, la potenza e la storia, il Mulino, p. 128.

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Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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