venerdì 18 settembre 2020

La dimensione paradossale dell'uguaglianza e l'empatia



Quello dell’uguaglianza, per Aron, non rappresenta una leva per la storia e per la sua interpretazione. Rappresenta invece un forte fattore di interpretazione ideologica e una leva politica che ha caratterizzato la fine dell’Ottocento e buona parte dei programmi politici per la sinistra nel Novecento.

La prima assunzione di Aron che il progresso in termini di sviluppo economico porta in sé lo sviluppo verso sempre una maggiore uguaglianza delle condizioni e di affermazione di società regolate attraverso procedure democratiche di selezione della classe politica. Potremmo dire, in tal senso, che l’uguaglianza non è un tema politico ma riguarda la natura della società industriale e di sviluppo di massa del benessere e che questa tendenza può presentare diverse interpretazioni tra destra e sinistra ma, di fatto, ha trovato interpreti in ogni forma di regime che si sia fatto carico dello sviluppo della società nate dalla rivoluzione industriale, comprese quelle di natura totalitaria.

Prima di entrare nel merito delle riflessioni aroniane sul tema è opportuno definire la pregnanza della problematica dell’uguaglianza vessillo dell’intera storia della sinistra moderna tanto che oggi è ritornata ad essere considerata il discrimine per la rinascita del manifesto per la sinistra del nuovo millennio (vedi Pikety e in Italia le idee di Barca).

Innanzitutto, è necessario un chiarimento di fondo: come fa notare Salvatore Veca, parlare di uguaglianza non corrisponde col parlare del problema della “disuguaglianza”. Quindi bisogna porsi due domande distinte: che cos’è l’uguaglianza e, in modo separato, domandarsi che cos’è la disuguaglianza.

Uguale vuol dire identico, stesso. Uguale è l’Uno di contro alla pluralità che è altro da sé stesso. L’identità di Parmenide non ammette la pluralità dello scorrere del tempo che genera e sancisce l’esistenza della pluralità. L’identità non ammette progresso, cambiamento, evoluzione ma solo un mondo immobile e sempre uguale a sé stesso, in cui la pluralità è solo un fenomeno illusorio del limite umano della conoscenza che si realizza attraverso i sensi, la misura, la discontinuità dei numeri la loro discontinuità, finitezza e determinazione che, invece, pongono la possibilità di cogliere la totalità soltanto attraverso un percorso infinito, un percorso per questo mai realizzabile, irraggiungibile come è irraggiungibile la piena conoscenza che, proprio per questo, nella pluralità e nel perenne superamento della ricerca, non ha mai termine. L’unità non ammette la discontinuità del progresso e così non ammette la possibilità della conoscenza: “l’Intelligenza è “qualcosa” che fa parte degli esseri. Quello, invece, non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede – diciamo così – una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Per Plotino l’Uno non ammette l’intelligenza e la conoscenza. Ciò perché “l’essenza dell’Uno è la generatrice di tutte le cose, essa non è nessuna di esse: perciò essa non è “qualcosa”, né è qualità, né quantità, né Intelligenza, né Anima; non è “in movimento” e nemmeno “in quiete”; non è “in uno spazio” né “in un tempo”; essa è in sé solitaria, tutta chiusa in se stessa, o meglio, è l’Informe prima di ogni forma, prima del moto e prima della quiete: poiché tali proprietà appartengono all’essere e lo fanno molteplice.”[1] In sostanza la molteplicità è inganno e illusorietà dell’Essere e l’Unità ammette soltanto la possibilità di superamento della realtà dell’Essere ingannevole nel momento mistico di congiunzione col tutto Uno immobile e sempre identico a sé stesso.

Parlare di uguaglianza comprende pertanto un elemento mistico che, come sostiene Aron, colloca il problema di una società di eguali sempre al di fuori della storia, in quel campo dell’utopia che spesso si manifesta più per i suoi effetti nefasti che per realizzazione di una maggiore giustizia.

In che senso allora considerare l’uguaglianza nella vicenda e nella storia dell’umanità che, in realtà, non è che la storia della diseguaglianza tra gli uomini e la storia dei conflitti che per essa si generano nel suo comporsi e decomporsi continuo.

Tralasciando, al momento, l’espressione secondo cui ci si può considerare uguali soltanto rispetto a qualche cosa che unisce e rende simili, congruenti due entità di per se poste separatamente ripresa pure da Rawls, uguaglianza come proprietà di campo, per cui l’uguaglianza non riguarda che una parzialità costruita finalizzata alla cooperazione tra esseri diversi ma con interesse condiviso di sopravvivenza; una proprietà che però ha la caratteristica di escludere sempre qualcuno che si trova fuori da questo campo. Allora, in che senso è possibile parlare di una uguaglianza in senso universale, una uguaglianza che non comprenda per forza l’identità nell’Unico essere parmenideo ma che possa essere inizio e indizio di pluralità sebbene dialettica nello scorrere del tempo e nel divenire della storia umana?

La “capacità di empatia e di identificazione nelle vite di altri che con noi sono inclusi nel campo della comune umanità” da cui emerge il rispetto per la vita, per le emozioni e i desideri di tutti gli altri esseri “senzienti”, solo questo può essere il cuore di una idea di uguaglianza in senso umano che non si contrapponga alla diversità, ma la assecondi e la favorisca in un reciproco gioco di empatia da cui nasce la stima e il rispetto per i piani di vita di tutti gli altri. Questa capacità “coincide anche con la capacità di guardare vite umane, astraendole dalle etichette sociali e dai ruoli entro cui quelle vite hanno inevitabilmente luogo.[2]” ciascuno di noi può riflettere su questo fatto elementare e prendere riflessivamente le distanze dai ruoli e dalle posizioni in cui è situato” provando ad “adottare un punto di vista umano su vite umane”. Esercitare la capacità di riconoscere gli altri e noi stessi come “agenti morali, [per cui] tutti noi abbiamo progetti e scopi e aspiriamo all’uguale rispetto per i nostri piani di vita” considerando “che aspirare all’uguale rispetto equivale ad aspirare a che il nostro particolare progetto di vita sia riconosciuto come ugualmente degno di essere riconosciuto da altri e da altre”. Solo questo può essere il senso che possa includere una idea di uguaglianza che comprenda l’umanità e la sua storia e i cui ci sia posto per quella che ci monaci tibetani chiamano compassione e gli altri altruismo, carità amore per il prossimo. Certamente una dimensione spirituale ma che trova un posto centrale nel cuore e nella mente dell’agente morale che fa la propria storia, la storia umana, quella storia che non può essere considerata mera evoluzione della natura e che spesso è stata e sarà una, impossibile, deviazione da essa, almeno finché non si potrà parlare di evoluzione delle macchine che sostituiscono la natura stessa.

Tuttavia, nonostante l’uguaglianza presenti una dimensione paradossale che, come dice Aron, la colloca al di fuori dell’orizzonte della storia; quella verso l’uguaglianza rappresenta una tendenza fondamentale della società moderna, come aveva intuito Tocqueville, di cui ogni programma politico e ogni progetto di società deve tenere conto. E qui, però, sconfiniamo già nel campo della disuguaglianza e delle diseguaglianze, tanto ingiuste quanto necessarie alla storia umana e al progresso.


L’antinomia dell’uguaglianza

Il concetto di uguaglianza rappresenta quindi un profondo paradosso per la politica e per la decisione politica. E, proprio per questo sono paradossali gli esiti storici che hanno avuto i tanti movimenti che ad essa si sono ispirati, i quali perseguendo la realizzazione dell’uguaglianza considerata come maggiore giustizia sociale sono finiti per realizzare le più gravi ingiustizie della storia dell’umanità.

Quella dell’eguaglianza rappresenta una delle aporie fondamentali della politica. Nella nostra epoca anche i totalitarismi sono nati nel nome dell’uguaglianza. Quindi, le società, più che in termini di progresso vanno valutate nei termini di quella che è sempre stata l’antinomia dell’ordine politico del quale ogni soluzione trovata nei diversi regimi dall’antichità ad oggi appare come imperfetta: è l’antinomia che si esprime nella tensione che deriva dalla volontà di conciliare la disparità dei poteri e del prestigio sociale con la partecipazione di tutti alla vita della comunità. Le società umane, dice Aron, hanno cercato di risolvere questa antinomia in due direzioni: la prima consiste nel sancire in termini istituzionali e sociali l’ineguaglianza; nel porre tutti in una determinata categoria e far accettare l’ineguaglianza di fatto e di diritto rispetto ai posti occupati nella società, la forma estrema di questo modello è il sistema delle caste. Al lato opposto troviamo il tentativo di affermare l’uguaglianza politica degli esseri umani nella democrazia spingendosi sempre più avanti nella ricerca e nella realizzazione dell’uguaglianza sociale ed uguaglianza economica. Le due soluzioni sono destinate a rimanere sempre imperfette poiché “L’ordine dell’uguaglianza è inevitabilmente un ordine formale, che ciascun potere stabilito cerca di esaltare dissimulando le reali ineguaglianze.” Esiste una contraddizione permanente tra la spinta egualitaria e la gerarchia di fatto in cui è la società stessa a doversi strutturare per essere governata e poter decidere, l’ineguaglianza appartiene in modo strutturale alla natura delle società umane, ma ciascun potere cerca di dissimulare questa realtà esaltando le eguaglianze formali. Anzi, come aveva in modo insuperabile osservato Tocqueville, anche i regimi più autoritari tendono ad invocare la volontà popolare e l’uguaglianza, nella società moderna, superato l’ordine delle caste e delle classi di tipo feudale “si possono stabilire regimi totalitari soltanto in nome della democrazia, perché tutti i regimi moderni sono fondati sul principio egualitario. Si istituisce un regime assoluto soltanto pretendendo di liberare gli uomini”. La legittimazione che i regimi riescono ad ottenere presso la volontà popolare, possiamo dire che scaturisce proprio dall’antinomia dell’uguaglianza in quanto è proprio richiamandosi a questa e ad una supposta liberazione da una qualche minaccia per la libertà del popolo, che le dittature del Ventesimo secolo si sono radicate nel tessuto sociale e istituzionale.

Ammettere l’esistenza di questa aporia, ammettere l’esistenza inevitabilmente strutturale dell’ineguaglianza tra gli esseri umani e le diverse funzioni che questi sono chiamati a svolgere nel sistema sociale è il primo passo verso una politica della ragionevolezza sulle possibilità effettive dell’impresa sociale e la realizzazione dei valori umani.

[1] Plotino, Enneadi.

[2] Salvatore Veca, Qualcosa di sinistra, Feltrinelli, 2019, e-book.

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Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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