martedì 26 giugno 2018

Paul Watzlawick 0.1 – Verso il costruttivismo. Individualità, responsabilità, comunicazione: il posto delle emozioni.

Con Pragmatica della Comunicazione Umana Paul Watzlawick, e i suoi collaboratori, pongono le basi per una teoria della comunicazione orientata all’analisi degli effetti comportamentali, o pragmatici, delle relazioni umane. Con la pubblicazione del volume gli autori avviarono un percorso conclusivo, e pubblico, di quanto avevano per anni sperimentato e osservato nell'analisi del comportamento umano. Con questo passaggio si riteneva di dover ormai procedere verso una formalizzazione più riconosciuta della trattazione delle problematiche della comunicazione umana, all'interno di una teoria sistematica globale.
La comunicazione umana risponde a regole ricorrenti. Ma queste, molto spesso, anche se presenti, ricadono al di fuori della consapevolezza dei diretti interessati. Si può dire che sebbene tutti noi obbediamo a regole nella prassi quotidiana con cui ci mettiamo in relazione col mondo, le regole stesse, la 'grammatica' di questa comunicazione, riamane per tutti noi qualcosa di ignoto, qualcosa di cui siamo quasi totalmente inconsapevoli. Tuttavia, in modo intuitivo, con queste regole, nelle relazioni con partner, colleghi, amici, o semplici interlocutori, ci destreggiamo facendo attenzione agli umori, alle reazioni o alle risposte, e ci adattiamo di conseguenza, attraverso un continuo flusso di scambi, un “calcolo”, gestito in modo più o meno consapevole e voluto: un calcolo che realizza ciò che chiamiamo comunicazione. La «Pragmatica della comunicazione umana rappresenta un tentativo di formulare degli assiomi di base di questo presunto calcolo che è la comunicazione, per mostrare come essi determinino l'interazione umana e per descrivere il tipo di patologia che insorge quando questi assiomi sono violati.»1
In questa prospettiva la comunicazione viene intesa non soltanto come veicolo o espressione manifesta delle interazioni tra individui, ma viene considerata come la più effettiva e migliore concettualizzazione di tutto ciò che genericamente si raccoglie sotto la voce “interazione”. La comunicazione è pertanto l'equivalente di ciò che è effettivamente osservabile nell'interazione umana. Lo studio della comunicazione equivale in tal senso allo studio dell'interazione umana così come questa si sviluppa e si svolge nei contesti in cui si manifesta.2

Tutti i comportamenti sono pertanto comunicazione e non soltanto l'uso della parola. Ogni comportamento produce un effetto proprio in quanto comunicazione e, in quanto tale, ad esso possono essere attribuiti tutti i criteri di misurazione e di valutazione che normalmente vengono attribuiti alla trasmissione di messaggi. Il comportamento può pertanto essere considerato alla stregua di un linguaggio governato da regole, da una propria grammatica e da una specifica sintassi. Un linguaggio che, come il linguaggio naturale, esprime la capacità di comunicazione degli individui e che, come il linguaggio naturale, si acquisisce nell'arco della crescita in modo del tutto astratto e non formalizzato e quindi in modo inconsapevole.
Questo linguaggio, in definitiva, non è altro che il linguaggio delle emozioni che interagisce con quelli che sono i valori della società o dei contesti culturali in cui viviamo realizzando ciò che viene definito “virtù” oppure “vizio”. Quello che coinvolge le emozioni costituisce un linguaggio molto spesso primitivo che viene incanalato attraverso l'educazione dell'individuo in senso sociale, ma è un linguaggio su cui i sistemi educativi hanno espresso ben poco se soltanto di recente si è posto l'accento su quella che è stata definita da Daniel Goleman “intelligenza emotiva”3. In correlazione con i livelli, numerico e analogico, della comunicazione umana Goleman sostiene che ”A tutti gli effetti abbiamo due menti, una che pensa e l'altra che sente. Queste due modalità della conoscenza, così fondamentalmente diverse, interagiscono per costruire la nostra vita mentale” e relazionale. La mente razionale dice ancora Goleman “è la modalità di comprensione della quale siamo solitamente coscienti … accanto ad essa c'è un altro sistema di conoscenza – impulsiva e potente, anche se a volte illogica, c'è la mente emozionale”4. Spesso queste due menti sono coordinate, ma quando i contesti in cui gli individui si trovano ad interagire fanno aumentare la forza delle passioni, l'equilibrio tra mente razionale e mente emozionale si capovolge e quest'ultima prende il sopravvento travolgendo la mente razionale.
Si potrebbe dire che è in questa fase che si manifestano le patologie della comunicazione umana e del comportamento di cui parla Watzlawick e che è possibile agire con l'una sull'altra soltanto attraverso gli strumenti della comunicazione e del comportamento, infatti i problemi ascrivibili alle manifestazioni della sfera emotiva sono, in quest'ottica, affrontabili attraverso un lungo processo educativo che dovrebbe svolgersi in parallelo col processo di educazione dell'intelligenza razionale verso cui oggi sono in modo univoco orientati le agenzie sociali preposte alla trasmissione del sapere: innanzi tutto le istituzioni scolastiche, ma anche quelle religiose e la famiglia.

Potremmo dire che normalmente nella relazione è “la mente emotiva” ad esprimere maggiormente la propria influenza. Immaginare una relazione fondata esclusivamente sulla “mente razionale” presupporrebbe una società di tipo “vulcaniano”.
Considerando il dualismo fondamentale della comunicazione, in Watzlawick sempre in chiave ancora esclusivamente analitica, un principio fondamentale della pragmatica della comunicazione è che in ogni comunicazione esistono diversi livelli di informazione, uno di questi livelli fa sempre riferimento alla relazione tra i soggetti della dell’attività comunicativa e quindi al contesto interpersonale nella quale si sviluppa la comunicazione e la relazione stessa. Tale dimensione ha un valore cognitivo e viene esplicitata anche attraverso la teoria dei giochi. Nel dilemma del prigioniero, ad esempio, si svela come ciò che in definitiva fa il prigioniero è di «dedurre correttamente lo stato reale delle porte mediante la specifica relazione tra le guardie e se stesso, e, così, arriva finalmente a una corretta comprensione della situazione usando un’informazione sugli oggetti (le porte e il loro essere chiuse a chiave o aperte) insieme a una informazione su questa informazione (le guardie e il loro tipico mettersi in relazione con gli altri – nello specifico, comunicare informazione).»5
Questi due ordini di informazione presenti nella comunicazione vengono classificati come aspetti relativi al contenuto dell’informazione e aspetti relativi alla relazione dello stesso messaggio materiale, indipendentemente della natura dell’oggetto e del suo stato di verità a cui il messaggio fa riferimento. Non è possibile concepire una informazione che sia costituita soltanto da un aspetto della comunicazione, per lo meno nel campo della comunicazione umana e con certezza anche la comunicazione animale. Infondo anche le macchine hanno bisogno di una informazione sulle informazioni: in realtà questi sono i programmi che servono a processare i dati delle informazioni, programmi che sono indispensabili a far si che i semplici dati diventino informazione. In conclusione si può affermare che «l’aspetto di relazione così come quello di contenuto sono proprietà fondamentali e sempre presenti nella comunicazione.»6
Questo fenomeno è possibile riscontrarlo in molte situazioni della vita quotidiana. Infatti in molte occasioni nelle nostre relazioni amicali, o di lavoro, le richieste di informazioni o l’avvio di una comunicazione che possa riguardare un oggetto o un argomento non viene avviata in senso puro per ricavare informazioni o definire, congiuntamente o meno con i nostri interlocutori, conoscenze rispetto ad oggetti o a situazioni. In realtà in molte occasioni di comunicazione ciò che viene messa in gioco è la definizione della nostra relazione con gli altri, o degli altri con noi.
Molto spesso questo tipo di informazione viene incanalata attraverso vie paralinguistiche che riguardano l’espressione del corpo o la mimica facciale, come pure il tono di voce e l’enfasi con cui si articola il linguaggio verbale. Queste informazioni che vengono trasmesse nei normali processi di comunicazione tra soggetti non hanno niente a che fare con lo stato degli oggetti o delle problematiche di cui si parla, ma hanno l’obiettivo di definire reciprocamente la natura della relazione. A questo piano appartengono anche molti dei sentimenti che si sviluppano tra individui, quali la stima, la fiducia, l’odio, amore ecc. che di fatto agiscono nella relazione al di sopra del contenuto stesso e degli oggetti specifici che riguardano il contesto su cui si sviluppa la comunicazione. Addirittura si potrebbe parlare di un sentimento di verità che questo livello di informazione può indurre rispetto agli argomenti di cui si discute tra i soggetti.
“Al di là del fatto che la comunicazione sia portata a termine o meno, essa produrrà sul piano del contenuto accordo o disaccordo tra i comunicanti; sul piano della relazione si manifesterà come comprensione o incomprensione – due fenomeni essenzialmente diversi…”7 In questi termini è quindi possibile, per due esseri umani che svolgono una comunicazione, essere in disaccordo su di una affermazione oggettiva, ma comprendersi l’un l’altro come esseri umani; o può accadere il contrario, essere in accordo ma non comprendersi e, in questo caso, aggiungendo negatività ad una comunicazione che in realtà è condivisa nei contenuti attraverso segnali di irriconoscenza reciproca e magari di inimicizia; oppure si può verificare l’uno e l’altro caso, essere d’accordo e comprendersi, oppure essere in disaccordo e non comprendersi, fallendo su tutti i livelli della comunicazione: questo è probabilmente il caso in cui la comunicazione non genera informazione tra i soggetti o addirittura, sul piano relazionale, genera soltanto ostilità e inimicizia.

Un problema tipico accade invece quando i due livelli tendono ad essere confusi, nel senso che i comunicanti si impegnano nello sforzo di risolvere un problema che riguarda la relazione attraverso una comunicazione che invece avviene sul livello dei contenuti. Situazioni a doppio legame che si manifestano spesso in contesti in cui i soggetti si trovano a districarsi in relazioni di sottomissione o di dipendenza, o di pressioni di gruppo in cui il fattore determinante è rappresentato dalle relazioni costruite su sentimenti di fiducia o di stima o, al contrario, di sottomissione ecc. Questi aspetti possono condurre a situazioni in cui si manifestano delle vere e proprie patologie.
In tal caso la spiegazione del comportamento di un certo soggetto viene ricondotta ad un processo intrapsichico e intra - personale. Così facendo si realizza una concettualizzazione su schemi e su attributi che relegano in secondo piano l’individuo, nel senso che tendono sollevarlo da una responsabilità nella costruzione delle sue relazioni, che invece viene attribuita a fattori oggettivi, nel senso di esterno alla relazione, di tipo sociali, psicologici ecc.. La pragmatica della comunicazione umana, al contrario, vuole ridare centralità alla responsabilità di ognuno in quanto soggetto attivo nell’edificazione delle proprie relazioni.8
Assunto di base del lavoro di Watzlawick è che la comunicazione è pienamente da intendere come un processo di interazione e non, come vuole la teoria tradizionale, un fenomeno unidirezionale tra chi emette un messaggio, o parla, e chi lo riceve, o ascolta; anche se a questo ultimo schema si aggiungesse la reciprocità bidirezionale, ciò non sarebbe sufficiente a descrivere la dimensione relazionale della comunicazione.
In quanto processo di interazione, la comunicazione pervade ogni espressione dell'esistenza umana ed è la condizione fondamentale dell'ordinamento sociale. E, considerato che gli esseri umani sono coinvolti nel processo di regole di acquisizione della comunicazione fin dall'inizio della propria esistenza emotiva ed intellettiva, la comunicazione, secondo il modello che si propone, non è da considerare semplicemente come strumento delle trasmissioni tra individui, ma deve essere considerata quale ambito, eco sistema, di formazione e realizzazione della stessa soggettività ed individualità. In tal senso si potrebbe dire che la persona (più ancora che la personalità) corrisponde al modo del soggetto di mettersi in relazione con gli altri individui e con il mondo e quindi al suo modo di comunicare, anche se questa comunicazione è il risultato di acquisizioni per lo più realizzate inconsapevolmente nell'arco della propria vita.

Siamo influenzati dalla comunicazione in ogni aspetto della nostra esistenza, anche la nostra auto consapevolezza dipende dalla comunicazione: infatti per capire sé stesso l'uomo ha bisogno di essere capito dall'altro; ma per essere capito dall'altro, ha bisogno di capire l'altro. La pragmatica della comunicazione umana rappresenta una ricerca che vuole mettere in luce la grammatica e le regole su cui si basa tale comprensione e di individuare un modello di funzionamento che possa definire un procedimento formale che chiarisca la differenza tra una comunicazione efficace e una che non è efficace9. Si tratta di processi che presentano una forte analogia con i valori etici del riconoscimento reciproco, si veda l’esempio della “mitezza” nell’eccezione di Bobbio.
Compiendo un volo analogico potremmo dire che la condizione che riguarda la comunicazione, la creazione del linguaggio e della relazione, non è molto lontana dalla condizione dell’individuo in rapporto alla società: l’individuo al netto delle sue relazioni è soltanto una astrazione, come è una astrazione la definizione della natura umana. Un concetto analogo alla critica a cui Marx sottoponeva l’individualismo romantico di Max Stirner. Tali astrazioni e relative alla natura dell’individuo sono pure alla base del razionalismo economico o utilitarista. Il costruttivismo, al contrario mette al centro l’individuo e la necessità della sua esistenza sociale e comunicativa, e quindi relazionale ed emotiva, considerandola ancor più una dimensione che agisce sull’osservatore stesso nel momento in cui pensa di potersi porre come semplice osservatore di un realtà oggettiva, o meglio oggettivata. La teoria rawlsiana che fa perno sulla posizione originaria e “il rispetto di sé”, rovescia in senso costruttivista l’impostazione classica della costruzione della relazione sociale che, in definitiva, si fondava su una supposta oggettività rispetto alla natura umana ascrivibile a quello che Von Foerster definisce come “realismo metafisico”: la presunzione dell’esistenza di una fattualità esterna ai processi conoscitivi.

Se invece si considera il contesto e il comportamento all'interno di tale contesto anche in riferimento ad altri soggetti in cui tale comportamento si sviluppa, il centro dell'interesse si sposta dall'individuo, isolato in modo artificiale, verso la relazione tra le parti all'interno di un contesto più vasto. Il centro dell'attenzione diventano così le manifestazioni osservabili nella relazione stessa, dove la comunicazione rappresenta il veicolo di tali relazioni, mentre passano in secondo piano gli aspetti relativi all'analisi teorica e deduttiva sulla natura della mente umana. In tal senso nella pragmatica il termine comunicazione può essere considerato come sinonimo di comportamento.

La pragmatica è lo studio di come comunicazione e comportamento interagiscono nei contesti sociali e relazionali e si influenzano a vicenda. In questa prospettiva si prende in considerazione, nell'analisi della comunicazione, tutto il comportamento e non soltanto il suo aspetto relativo all'articolazione verbale; inoltre assumono significativa importanza tutti i segni che fanno riferimento al contesto in cui avviene la comunicazione. Per rendere comprensibili tali contesti la pragmatica ricorre ad una concezione che considera i fenomeni comportamentali in modo orizzontale, sincronico. In modo analogo in cui si possono considerare le sequenze di mosse che, per così dire, compongono una partita a scacchi: per individuare e capire la situazione del gioco e il rapporto tra i giocatori non è necessario risalire alle sequenze passate con cui si è arrivati alla configurazione attuale, in quanto l'esame attuale della scacchiera ci fornisce, in qualunque momento, tutte le informazioni necessarie e complete per poter cogliere e comprendere lo stato delle cose, dei fatti.

Riguardo alla comunicazione e alle emozioni è possibile riscontrare un ulteriore sviluppo che va oltre il ragionamento meramente analitico degli autori. Infatti, il quarto assioma della pragmatica della comunicazione umana pone al centro l'importanza del linguaggio analogico nei contesti relazionali.
Come già indicato in precedenza, il linguaggio analogico, ma la stessa cosa si potrebbe dire per le emozioni, si fonda quindi su convenzioni primordiali che sfuggono alle capacità di codificazione del linguaggio digitale. Questi due aspetti convivono nella nostra pratica quotidiana relativa alla comunicazione e allo scambio comportamentale, gli esseri umani hanno la necessità di combinare questi due linguaggi, e devono costantemente tradurre dall'uno all'altro. E infatti il quarto assioma di Watzlawick asserisce che “Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni.10

Se si considerano le recenti scoperte sulla plasticità delle cellule neurali, secondo cui le relazioni contribuiscono a creare attraverso lo stimolo le aree cerebrali che diventano responsabili delle stesse realtà emotive che governano le relazioni sociali; allora si capisce come l’attenzione sulla pragmatica della comunicazione diventa centrale nella reazione di tutti i fenomeni della comunicazione emotiva, attraverso la relazione tra “i due cervelli” di cui parla Goleman: razionale ed emotivo.

L'argomento porterebbe però l'attenzione verso un nuovo campo che riguarda l’ambito delle pratiche per la soluzione delle situazioni di conflitto patologico a partire da una mappatura delle esperienze emotive. Nella esperienza della pragmatica della comunicazione umana sono state elaborate pratiche relative gli aspetti da attivare per mettere in moto quei meccanismi mentali di ristrutturazione comportamentale al fine di ridefinire le relazioni, dalle relazione di coppia fino al più ampio spettro di tutte le relazioni sociali e interpersonale.
A tale proposito si può dire che lo sviluppo della intelligenza emotiva e quindi di una comunicazione-comportamento sani, dipende da un processo che permetta di raggiungere un certo grado di consapevolezza del funzionamento del proprio comportamento e delle proprie relazioni in modo da promuovere la positività nella vita emotiva e relazionale individuando gli skill che rendono possibile una comunicazione sana ed efficace.11 Ma perché un tale progetto si possa realizzare i programmi che riguardano che riguardano l’intelligenza emotiva e la comunicazione dovrebbero essere introdotti nei nostri modelli come modelli educativi all’interno dei programmi scolastici.

Nei limiti dei nostri interessi, invece, le curve iperboliche e le analogie utilizzate hanno la funzione di sgombrare il terreno per la costruzione di un modello di teoria delle “virtù” ispirata dall’apertura e dal riconoscimento della libertà individuale e dei valori della cooperazione sociale.

1 Paul Wattzlawick e John H. Weakland (a cura di), La prospettiva relazionale. I contributi del Mental Research Institute di Palo Alto dal 1965 al 1974, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1978. p. 56.
2 Paul Wattzlawick e John H. Weakland, Ibidem p. 56.
3 Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1999.
4 Daniel Goleman, Ibidem, p. 21.
5 Paul Watzlawick e John H. Weakland Ibidem, p. 61.
6 Paul Wattzlawick e John H. Weakland Ibidem, p. 61.
7 Paul Wattzlawick e John H. Weakland Ibidem, p. 61.
8 Vedi Watzlawick, P. (a cura di) La realtà inventata: contributi al costruttivismo, Feltrinelli, Milano, 1981.
9 Paul Watzlawick e John H. Weakland Ibidem, pp. 29-35.
10 Paul Watzlawick e John H. Weakland, Ibidem, p. 57.
11 Monica Simionato – George Anderson Terapia d’urto. La comunicazione come strumento per gestire le proprie emozioni, Franco Angeli, 2003, pp. 157 e seguenti.

giovedì 14 giugno 2018

Raymond Aron 0.1 - Il riformismo è la vera rivoluzione


Nella visione di Raymond Aron il cambiamento e il miglioramento delle condizioni sociali, l’uguaglianza di risorse e di opportunità, può essere affrontato in modo efficiente soltanto in un quadro di istituzioni liberali e democratiche e, riguardo l’intervento politico, esclusivamente da una prassi orientata al riformismo. La convinzione di Aron si ispira ad una sorta di pragmatismo che riconosce nella realtà sociale e storica il banco di prova per le teorie, quanto il limite invalicabile per ogni ideologia. L’”oppio degli intellettuali” sono tutti quei miti della conoscenza e della vocazione politica che impediscono la comprensione dei fatti, sociali  o economici, e della realtà storica in quando li racchiudono in schemi che spesso  rispondono ad aspirazioni volontaristiche di natura morale, secolarizzata o religiosa, camuffate, da supposte leggi della storia, dell’economia o della società.
Raymond Aron aderisce ad una lettura del progresso sociale in cui le istanze del rinnovamento, proveniente dalla ricerca scientifica e dalla tecnologia, contribuiscono in modo dialettico alla realizzazione del progresso economico insieme al miglioramento delle condizioni sociali. Questa dialettica si presenta con una crescita delle ineguaglianze nei momenti di espansione economica per poi tornare a livellarsi attraverso l’espansione dei diritti sociali attraverso la dinamica della cittadinanza attiva che si esprime nei diritti. La democrazia è il cemento indispensabile per la composizione dei conflitti che provengono dalle dinamiche dello sviluppo in un rapporto di equilibri che realizzano la libertà come maggiore disponibilità di risorse economiche per gli individui e maggiori opportunità di partecipazione alla vita politica e sociale.
Questa dialettica iscritta nell’atto costituivo della società moderna non ha bisogno della rivoluzione per risolvere le ingiustizie. Al contrario, le esigenze di giustizia sociale di fatto possono essere concretamente e saggiamente perseguite solo attraverso il riformismo. Aron considera le rivoluzioni e i rivoluzionari come interpreti ci una istanza negativa volontaristica ed estetizzante «molti intellettuali …   passano … dall’ateismo alla rivoluzione, non perché quest’ultima prometta di riconciliare gli uomini o di risolvere il mistero della Storia, ma in quanto distrugge un mondo [considerato moralisticamente] mediocre e odioso. … La parola révolte, come la parola nichilismo … si usa tanto spesso che si finisce per non sapere più che propriamente significhi.»[1] In questa concezione Aron accomuna tanto la destra che la sinistra.
La ripugnanza che Aron esprime di fronte ai fenomeni delle rivoluzioni è radicata nella sua chiara opzione per la pace. Citando Erodoto, Aron sostiene che nessun uomo è talmente privo di ragione da preferire la guerra alla pace. Tuttavia, per tutto il novecento, di fronte al culto fascista della violenza e ad una antropologia che vuole lo stato di guerra come condizione naturale per l’uomo, la sinistra non ha fatto altro che opporre il mito della rivoluzione quale rifugio del pensiero utopistico. Un mito imprevedibile quanto misterioso, crocevia tra l’ideale di una società migliore più equa e libera e la realtà storica dell’oppressione dell’ingiustizia realizzata nei regimi dell’est Europa. La sinistra ideologica quindi anziché esprimere ripugnanza, ha rivelato tutta la sua attrazione per il conflitto e spesso per la violenza in chiave di utopia rivoluzionaria. Un mito moralista che esalta gli animi fino al giudizio di tradimento per ogni posizione riformista. Infatti, come sostiene Aron il laburismo, la “società scandinava senza classi” non hanno mai destato nella sinistra europea i medesimi entusiasmi che hanno suscitato le cosiddette rivoluzioni.[2] Il mito della palingenesi rivoluzionaria che vive oggi in diverse forme di anticapitalismo deve essere totamente esorcizzato dallo statuto della sinistra riformista.
Il riformismo predilige la libertà reale e diffida dei proclami che promettono un mondo ideale di piena libertà e realizzazione di sé stessi, cioè la libertà ideale. «Dove l’espansione economica progredisce, dove il livello di vita s’è innalzato, perché sacrificare le libertà reali dei proletari, per quanto parziali siano, ad una liberazione totale che si confonde stranamente con l’onnipotenza dello Stato?»[3] Aron scrive negli anni sessanta e pensa alla Francia dell’esistenzialismo sartiano, che mal si concilia con le pretese scientifiche del marxismo, e tanto meno con la realtà delle società occidentali sviluppate. Gli intellettuali puri della sinistra francese, dice Aron, considerano sterile il riformismo e, in quanto spiriti superiori, non hanno avuto modo di apprezzare quanto realizzato per i proletari dal laburismo inglese o dal sindacalismo scandinavo e si dimostrano delusi di fronte a quegli operai che scelgono i vantaggi immediati nel miglioramento delle proprie condizioni, di vita e di lavoro, piuttosto che i grandiosi progetti a lunga scadenza. Le contraddizioni della sinistra sartriana sono tutt’oggi presenti in tante posizioni della sinistra radicale e movimentista in tutta Europa.
Al contrario i nostalgici della libertà ideale trascurano queste conquiste e le condizioni concrete di una vita migliore, nel miraggio di una soppressione del lavoro salariato. Di fatto più l’industria moderna si sviluppa, maggiori diventano le possibilità concrete di liberazione che si realizzano attraverso un vincolo crescente di responsabilità sociale di tutti gli attori dello sviluppo. In questo processo «i rivoluzionari che sognano la liberazione totale non fanno altro che affrettare il ritorno alle anticaglie del dispotismo»[4] che si realizza innanzi tutto in una commistione tra potere economico e potere politico sulla cui indipendenza, invece, è fondato in raggiungimento degli obiettivi che realizzano la libertà reale. Ciò vale tanto per i radicalismo rivoluzionario di destra quanto per quello di sinistra. Al centro delle possibilità di riscatto sociale stanno la democrazia liberale e il progresso economico consentito dalle conquiste della scienza e della tecnica nella società aperta. La liberazione reale dell’operaio in Inghilterra e in Svezia è, per il radicalismo rivoluzionario, tediosa come una “domenica inglese”, dice Aron, la liberazione ideale è affascinante come un salto nel futuro o come un avvenimento catastrofico.[5]
Sicuramente il progressivo raggiungimento del benessere materiale e delle conquiste civili nel campo dei diritti lasciano poco spazio ai sostenitori della liberazione ideale e ciò consente di avere società politicamente stabili e relativamente prospere dove sono garantiti insieme alla salute e all’istruzione anche il benessere e l’opportunità di cambiare la propria condizione. Per questo è il riformismo la vera bandiera della sinistra.


[1] Raymond Aron L’oppio degli Intellettuali, 1955, Cappelli edizioni, p. 76.
[2] Raymond Aron Ibidem p. 88.
[3] Raymond Aron Ibidem p. 102.
[4] Raymond Aron Ibidem p. 119.
[5] Raymond Aron Ibidem p. 116.

lunedì 11 giugno 2018

John Rawls 0.1 - Il “rispetto di sé” come punto di intersezione tra Utilità e Contratto sociale

Il “rispetto di sé” è, secondo Rawls “il bene principale forse più importante”. Il rispetto di sé comprende innanzitutto la consapevolezza e la convinzione del senso del proprio valore: “la ferma convinzione che la concezione del proprio bene, il proprio piano di vita, merita di essere attuata”; in secondo luogo il rispetto di sé comprende la “la fiducia nella propria abilità personale a portare a termine, fin dove ci è possibile, i nostri propositi.”
Il rispetto di sé è un importante bene principale in quanto, dice Rawls, è chiaro che “in sua assenza può sembrare che niente meriti di essere fatto, oppure, se ci sono cose che hanno valore per noi ci manca la volontà di lottare per ottenerle. Se manca il bene principale del rispetto di sé “tutti i desideri e le attività diventano vuoti e inutili, e noi sprofondiamo nell’apatia e nel cinismo” Per questo motivo, dice Rawls, “le parti nella posizione originaria vorrebbero evitare, in ogni modo, le condizioni sociali che indeboliscono il rispetto di sé”.1
Da punto di vista del costruttivismo radicale Teoria di Rawls può essere letta a partire dalla soluzione data alla responsabilità e all’istanza individuale. Ciò consente di evitare la possibilità che la Teoria venga ridotta ad una sorta di architettura istituzionale fondata sui principi razionalisti del costruttivismo cognitivo di Rawls, quali quello della scelta sotto il velo di ignoranza e i principi di eguaglianza e di differenza su cui si sviluppa la giustizia distributiva. Mettere al centro l’istanza individuale consente alla Teoria di essere presentata anche come una risposta ai limiti del liberalismo classico e dell’utilitarismo. Inoltre la virtù, quale principio dell’agire sociale, se proiettata all’interno di un panorama esclusivamente contrattualista potrebbe assumere aspetti già noti nelle forme dello stato etico. La virtù, per rimanere tale, non deve sovrastare i limiti segnati dalla libertà individuale e dalla responsabilità. Quindi il liberalismo che nasce dalla virtù ha bisogno di un patto sociale come ha bisogno delle libertà individuali.
Pertanto il costruttivismo radicale affronta i problemi posti dalla Teoria di Rawls in coerenza con il principio pragmatico che vuole che la conoscenza, come pure la capacità di definire le relazioni umane e sociali avvenga a partire da un orizzonte che non può prescindere dalla responsabilità individuale e quindi, in senso politico, da quell’individuo portatore di interesse centro della riflessione liberale anche nella teoria utilitarista. Tuttavia mentre queste ultime arrivano a supporre l’inesistenza o la finzione rispetto a tutto ciò che non è riconducibile all’interesse individuale, e quindi all’idea che i rapporti sociali non sono che una finzione o, al più, una costruzione scenografica governata da una mano invisibile che opera sempre al fine di consentire la soddisfazione dell’utilità individuale; nel costruttivismo politico radicale, l’individuo e a scelta sono il punto focale per la realizzazione del patto sociale che, nella sua edificazione, ha come obiettivo proprio quello di promuovere l’individualità, la vocazione di ognuno e il rispetto di sé, quel rispetto che, come dice Bobbio, ha bisogno dell’”altro” per realizzarsi esprimendosi in quella virtù fondamentale che è la “mitezza”.
Un patto sociale che non è il risultato di una alienazione di una cessione della libertà propria in senso roussoviano od hobbesiano. Il contrattualismo, o meglio il neo contrattualismo rawlsiano, non è alienazione ma valorizzazione delle istanze che riguardano il miglioramento e la crescita della persona umana. Un contratto che mette al centro l’individuo umano come un fine, e mai come un mezzo. Sotto questo aspetto Rawls può essere considerato un esponente di u nuovo liberalismo non fondato sull’utilitarismo che promuove l’interesse o meglio la ricerca dell’utilità come somma di piacere. Il liberalismo rawlsiano promuove il “bene” che, in quanto tale, anche se i beni materiali sono indispensabili alla realizzazione delle opportunità e pertanto è desiderabile che di questi si disponga di una quantità maggiore piuttosto che minore, il “bene” non si realizza in una dimensione di isolamento nell’egoismo individuale, ma in una dimensione di riconoscimento delle capacità e del talento attraverso la realizzazione del proprio piano di vita improntato al principio aristotelico di affermazione delle proprie abilità. Il bene pubblico che si realizza nei principi di giustizia è quel bene di cui ognuno ha bisogno per la realizzazione del proprio piano di vita o del proprio bene che, in quanto tale, non è in conflitto con quello pubblico ma, per il principio di differenza, si definisce in un rapporto di cooperazione.
Il liberalismo di Rawls apre una nuova via per la teoria sociale e per le dottrine liberali in cui queste contribuiscono alla costruzione dei fondamenti per la libertà di individui diversi in quanto detentori di uguali opportunità, individui che cooperano nell’impresa sociale dando spazio alle differenze che vanno a vantaggio di tutti in un gioco a somma positiva dove a vincere sono tutti al contrario di quanto accade nel liberalismo utilitarista.
Pertanto la Teoria di Rawls non può essere considerata astrattamente come un progetto di ingegneria costituzionale per la costruzione di una società equa in funzione di un principio più raffinato di distribuzione e di redistribuzione. Una tale concezione condurrebbe la Teoria di Rawls al rango di una diversa forma di “realismo metafisico” (Watzlawick) privandola di quella dimensione pragmatica che costituisce il principale supporto per la sua esposizione come teoria e prassi del liberalismo politico.

1John Rawls, Una Teoria della giustizia, Feltrinelli Milano 1982. (A Theory of Justice, 1971), p. 362

mercoledì 6 giugno 2018

Macron: liberalismo senza ideologia. Ovvero il liberalismo sociale VS il populismo

Il crepuscolo del "secolo breve" sembrò segnare la fine delle ideologie che avevano ispirato le scelte e le lotte degli uomini per oltre un secolo. L'alba del nuovo millennio si è annunciata con la fine dei parti politici che di quelle ideologie di cui sono stati, nel bene e nel male, i portatori. Ciò vuol dire che hanno esaurito la funzione anche i sistemi sociali, istituzionali e i valori a cui gli uomini e le donne per oltre due secoli si sono ispirati nella loro costruzione? 
No. Al contrario oggi viviamo un'era in cui eguaglianza, libertà, solidarietà e miglioramento delle condizioni di esistenza, estensione dei vantaggi del progresso esteso a sempre più vaste popolazioni, insieme alle responsabilità a cui esso induce. Democrazia e stato di diritto, affermazione del "referente antropologico" della società nata dall'Illuminismo e dalla rivoluzione scientifica posto nel valore della vita umana, della dignità umana e della qualità della vita, nella salute come nell'istruzione. Viviamo in un'era in cui tutte le conquiste della società moderna, figlia di Prometeo, si stanno diffondendo all'intero globo, affermando la loro natura di valori universali. No, no è finita la funzione della politica perché dove finisce la politica, finisce la libertà umana e la liberazione della condizione umana che con la modernità e l'Illuminismo si è affermata nell'orizzonte umano. Oltre lo stesso concetto di Prodotto Nazionale Lordo, come sostiene Amartya Sen "Lo sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani" (da Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia, Mondadori 2000). 
Nell'espansione universale di quei valori sorti come appannaggio di un ridotto gruppo di nazioni del continente europeo, nasce la crisi del vecchio mondo, il mondo delle grandi ideologie. Una crisi che annuncia un nuovo mondo, ma che è sempre lo stesso mondo umano nato dalla rivoluzione scientifica, che si afferma con nuovi canoni di pensiero, nuovi strumenti, nuove competenze e nuove idee intorno a cui aggregare gli uomini e le società.  
Questo nuovo mondo sta scuotendo le istituzioni delle vecchie società fondate sullo Stato liberale e democratico e sta scuotendo le istituzioni della politica. Un terremoto che porta il cosiddetto occidente alla perdita del privilegio di essere il centro del mondo, e mentre le sue conquiste si espandono si perde l'esclusività per quei paesi che per due secoli hanno goduto in modo esclusivo dei vantaggi della modernità. Una perdita che ha con sé la conseguenza del divaricarsi delle differenze all'interno delle vecchie società democratiche liberali; una perdita che porta alla reazione del populismo sovranista, una reazione di chiusura paradossalmente nel momento in cui il mondo vede una espansione dei valori su cui era nata la società moderna. Ma la reazione populista sovranista non scongiura il rischio della perdita dei privilegi e dell'estinzione, anzi la favorisce e la prepara. L'estinzione che viene dalla incapacità di adattamento al mutamento dell'ambiente. Estinzione per scongiurare la quale bisogna invece andare incontro al proprio destino con la capacità di adattarsi e di salire sulla scala dell'evoluzione. 
Quindi non è finita la politica ma è la fine delle vecchie società forgiate nell'ottocento come stati nazionali che oggi devono trovare la loro strada nella società universale nata dalla diffusione della scienza e dalla tecnologia e dall'espansione di quel modello di società che porta sempre più popoli verso il godimento di quei diritti di cittadini, diritti civili e sociali, e del benessere di quello che solo alcuni decenni fa era considerato il primo mondo. Oggi le popolazioni europee e "occidentali" devono trovare la propria strada verso il mondo della globalizzazione, che non riguarda solo gli altri ma tocca noi stessi in prima persona. Perché, se e le cose stanno così, il sovranismo e la chiusura sarebbero la morte definitiva di quelle società che sono state la culla della civiltà. Per questo la politica non ha finito il suo compito. Infatti, è ancora compito della politica trovare gli strumenti, definire i valori e indicare gli obiettivi e le vie da seguire verso quel nuovo mondo dei diritti universali dell'era della globalizzazione. 
Nell'era della globalizzazione il progresso scientifico e lo sviluppo della tecnica non si presentano sempre con gli stessi aspetti che hanno avuto nella loro società e civiltà originaria, cioè attraverso la libertà e l'affermarsi della democrazia. Anche se la crescita del benessere porta alla richiesta di nuovi diritti di cittadinanza, non sempre ciò si produce secondo i canoni che hanno portato all'affermarsi del referente delle società occidentali che hanno posto al centro dei loro sforzi il rispetto della vita e della dignità umana. Si tratta di un referente che è il frutto di millenni di civiltà e che non si propaga semplicemente con i costrutti del progresso e che per affermarsi anche in occidente ha avuto bisogno di società fondate sullo stato di diritto e sulla democrazia liberale che riconosce il valore della vita, della dignità umana e della libertà, della libertà politica in particolare. 
Perché, come dice Aron "Le libertà politiche sono la condizione dei più alti valori. Le libertà intellettuali e le procedure democratiche sono un argine all'arbitrio del potere e rendono gli uomini capaci di ragione e moralità, né conformisti né ribelli ma cittadini critici e responsabili che danno vita ed eccellenza alle istituzioni. Liberi nei confronti della società di cui rispettano le leggi e denunciano le imperfezioni. Liberi perché rivendicano il diritto di cercare, se occorre, la verità e liberi di cercare la propria salvezza."  
Per questo oggi c'è bisogno di più politica, e non di meno. Una politica che pur sempre deve esprimersi attraverso forme organizzative che siano, innanzi tutto, coerenti con i valori che pretendono di affermare. Quindi una nuova forma per la politica, e una nuova forma per gli stessi valori dell'umanità e della società universale. Macron è uno dei precursori della politica progressista della società universale. Una politica che valorizza la storia e l'identità dei popoli mentre si apre al mondo e ai valori universali. 
Non è dunque un caso se Macron, nel saluto per la vittoria, abbia citato l’Illuminismo, e i valori della Rivoluzione Francese, il cui spirito “minacciato” va difeso “ovunque”. Macron ha posto l’Europa dell’Illuminismo al centro del suo disegno per far uscire la Francia dalla crisi economica e dalla crisi di identità in cui è avvolta come e più dell’Italia. Macron è un liberale. Un liberale che, contro gli “utopisti del passato”, crede fortemente nella autodeterminazione dell’individuo: “il progetto che la Francia reca in sé (…) è un progetto vecchio di secoli, (…) Dal Rinascimento al secolo dei Lumi, dalla Rivoluzione americana alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e all’antitotalitarismo, la Francia ha contribuito a illuminare il mondo per liberarlo dal giogo dell’ignoranza, dalle religioni oscurantiste, della violenza negatrice dell’individuo”.  
Macron sposta, l'asse della conflittualità per contrastare il populismo. Cuore della conflittualità non è la classe, ma è la modernità stessa e, con essa, i valori del secolo dei lumi, lo sviluppo della tecnica che riduce i posti di lavoro creando ricchezza solo per alcuni, perdita della speranza e paura per la maggioranza. 
Macron ha salutato la sua vittoria come la vittoria della speranza contro la paura e i suoi eserciti populisti. Una vittoria della libertà contro i nemici della libertà dell’uomo, contro il nichilismo e l’irrazionalismo che scaturisce dalla delusione causata dallo scontro tra le ispirazioni e i fatti. Quella di Macron è la vittoria dell’ottimismo; quell’ottimismo che trova dei valori positivi nella nostra storia. Un ottimismo pragmatico, che crede che l’uomo possa realizzare le proprie aspirazioni attraverso l'assunzione di responsabilità, la ragionevolezza, e così ridare forza alla speranza e alle ispirazioni. Questi sono i valori e l’utopia sociale ed europeista del liberalismo di Macron. Quella di Macron si presenta come una utopia realista, in cui la libertà precede l’uguaglianza (rovesciando l’assioma del marxismo), che diventa uguaglianza nelle opportunità che possano consentire a chiunque, indipendentemente dalle condizioni di nascita, di essere “diverso” (non “uguale”!) e di contribuire con la sua diversità all’arricchimento e al benessere della società, in particolare dei più svantaggiati (John Rawls). 
Laddove per il liberalismo classico la società è una finzione. Liberalismo sociale è costruito sui valori, sulla responsabilità, sui principi che rendono possibile una “politica ragionevole”, in grado di farsi carico del miglioramento della condizione della maggioranza promovendo lo sviluppo economico. Liberalismo come impegno morale per una società più equa, da promuovere attraverso lo sviluppo della scienza, della tecnica, delle capacità produttive, dell’economia di mercato. Liberalismo come impegno politico “ragionevole”, per porre rimedio alle contraddizioni e alle disuguaglianze che, inevitabilmente si incontrano nelle curve e nelle oscillazioni del progresso. Un liberalismo senza “ideologia liberale”, ma anche distante dalle ideologie del socialismo (Raymond Aron). Un liberalismo che è una attitudine morale ispirata dall’ottimismo per le sorti dell’umanità. Una attitudine come scelta di responsabilità e impegno, per mettersi in gioco senza la guida delle ideologie. Attitudine che ha la propria stella polare nella convinzione che tutti gli individui godano degli stessi diritti e le stesse libertà nel promuovere la propria vocazione.  
È questa la politica di cui abbiamo oggi bisogno, la politica per un movimento riformista del liberalismo sociale nel mondo globale.

Mitezza: antidoto al populismo

La mitezza, è la virtù, dice Norberto Bobbio, che va alla radice morale delle relazioni ed è, per così dire, l’elemento base che sostiene la persona umana. L’esercizio della mitezza predispone alla realizzazione della libertà propria e dell’altro; in quanto, la libertà, è innanzitutto libertà morale e virtù, e, per questo, sostanza ed essenza dell’individualità. Attraverso la definizione della mitezza, Bobbio si pone il problema della composizione di una “dottrina della virtù”1.  
Nella società fondata sullo Stato di diritto, la virtù dell’uomo si esaurirebbe nell’osservanza dei propri doveri e nell’esercizio dei propri diritti. Ma, secondo Bobbio la virtù non si contrappone al dovere, entrambi possono concorrere alla realizzazione del Bene.  
La mitezza, in rapporto al dovere, si presenta come una virtù sociale che sta al centro e che è misura delle relazioni con i nostri simili. Secondo Aristotele, la mitezza è “disposizione buona rivolta agli altri”. In quanto tale è somigliante ad altre virtù sociali, come, ad esempio la giustizia
La mitezza non è da confondere con la docilità, caratteristica più attinente al comportamento di chi non si sdegna, ed ha una consapevole accettazione del male quotidiano. La mitezza, al contrario, è attiva, si indigna di fronte al male e all’ingiustizia. Non fugge, ma reagisce, e la sua azione è volta ad aiutare l’altro a vincere il male. La mitezza, pertanto, può essere considerata come “una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite – dice Bobbio – è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé.
Quindi la mitezza non è mai un atteggiamento verso sé stessi; ma atteggiamento verso gli altri che, proprio per ciò, non cade mai né nella sopravvalutazione né nella sottovalutazione di sé stessi. Per questo non va confusa con la modestia, che deriva da una mancanza di stima per sé stessi. Il mite non è modesto. La mitezza inoltre va oltre la tolleranza perché cerca il l’altro, il diverso da sé senza temerlo o adularlo. 
La mitezza non va confusa con la remissività. Il remissivo, l’umile, può essere un testimone nobile, ma senza speranza, di questo mondo, mentre “Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore”. Il mite è per questo persona serena, ilare, soddisfatta di sé stessa, in quanto intimamente convinta della propria aspirazione ad una migliore condizione, “una condizione che egli prefigura nella sua azione quotidiana”.  
La mitezza ha come virtù complementare la semplicità. La semplicità si può pensare come una disposizione unita alla limpidità, alla chiarezza, al rifiuto della simulazione: una predisposizione, appunto verso la mitezza. Al contrario, “difficilmente l’uomo complicato può essere disposto alla mitezza: vede dappertutto intrighi e trame e insidie, e quindi tanto è diffidente verso gli altri quanto insicuro verso sé stesso.” Il mite ha una concezione erasmiana dell’altro e dei rapporti umani, una concezione opposta alla visione dell’uomo presente in Hobbes o Machiavelli. Il mite è figlio di quell’Illuminismo che vede l’umanità sempre come fine e mai come un mezzo. Non a caso, si potrebbe dire, Macron ha voluto rilanciare una forma di neo illuminismo nella contrapposizione al populismo. 
Bobbio considera la mitezza come prefigurazione della città ideale, è la mitezza che rende il mondo migliore, in quanto essa prefigura e fa pensare che “la città ideale non sia quella fantasticata e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale.” 
La scelta della mitezza è per Norberto Bobbio una scelta “metafisica” che affonda le radici in una concezione del mondo. Una scelta oggi tanto più impellente a fronte di una politica e che sta scadendo sempre più verso il conflitto e la reciproca delegittimazione. Un valore impolitico che è al contempo presupposto per ogni relazione politica; fondato sul rispetto reciproco e il rispetto delle regole che presiedono alla democrazia liberale, perché la politica diventi perseguimento del Bene comune e conquista e mantenimento del potere. 
Dahrendorf iscrive Bobbio tra gli intellettuali “erasmiani”, che, nel ventesimo secolo, si opposero alle “tentazioni” totalitarie e autoritarie, rappresentanti di una opposizione morale, prima che politica, al totalitarismo. Una opposizione profonda, che va alla radice delle relazioni umane, perché ritiene che queste non possono fondarsi che sulla libertà e sul riconoscimento dell’altro. Quindi intellettuali che considerano il totalitarismo e l’autoritarismo nemico assoluto della dignità e della libertà umana. Il populismo è autoritarismo in modo sostanziale, nel richiamo illiberale al legame immediato tra corpo sociale e istituzioni che annulla la politica e la libertà, e, con essa, impedisce alla fine, il perseguimento del Bene comune e delle virtù come appunto la mitezza, cosa di cui ogni giorno si dà ormai spettacolo sulla scena della politica. Per questo l’opposto della politica urlata è soltanto la politica ragionata, il dialogo, appunto l’esercizio della mitezza che deve diventare un programma di educazione alle virtù.
1 Citazioni da Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2010 (prima edizione 1998)

venerdì 1 giugno 2018

Norberto Bobbio, “mitezza” virtù liberale per eccellenza (approfondimento)

La mitezza, è la virtù, dice Norberto Bobbio, che va alla radice morale delle relazioni umane ed è, per così dire, l’elemento base che sostiene la persona umana. L’esercizio della mitezza predispone alla realizzazione della libertà propria e dell’altro; in quanto, la libertà, è innanzitutto libertà morale e virtù, e, per questo, sostanza ed essenza dell’individualità. Attraverso la definizione della mitezza, Bobbio si pone il problema della composizione di una “dottrina della virtù”1.

Le virtù, nel percorso che ha portato l’umanità verso la modernità e l’avvento del pensiero razionale e scientifico, sembrano aver perso il proprio primato, la propria centralità nella riflessione morale.
Al contrario, gli antichi risolvevano tutta l’etica in una trattazione della virtù. Alcuni filosofi moderni, occupandosi delle passioni, trovarono un posto per la virtù contrapponendola ai vizi umani. Kant, ad esempio, la vedeva come la forza di volontà necessaria all’adempimento del proprio dovere.
L’etica del dovere è l’etica del rispetto delle regole; ma il dovere può non corrispondere con la virtù. La società moderna predilige il dovere rispetto alla virtù. In Alasdair MacIntyre, la virtù si pone in chiave di sfida alla modernità: “l’etica delle virtù si contrapporrebbe all’etica delle regole, che è andata prevalendo nell’etica moderna e contemporanea. L’etica delle regole è l’etica dei diritti e dei doveri.”2 Nella società fondata sullo Stato di diritto, la virtù dell’uomo si esaurirebbe nell’osservanza dei propri doveri e nell’esercizio dei propri diritti. Le regole sono impersonali e caratterizzano i rapporti sociali con procedure sistematiche, precise e calcolate razionalmente. L’individuo diventa “soggetto astratto”, operatore razionale. È la burocrazia che, come dice Weber consente l’aumento di produttività, insieme con il “disincanto” del mondo, che guadagna in efficienza diminuendo le istanze della individualità.

In questa evoluzione verso il razionalismo, nella società del benessere, l’espressione di virtù è diventa sinonimo negativo di antico o al più di moralismo. Bobbio, come Erasmo, è un sostenitore del progresso e del pensiero scientifico, espressione prometeica più propria della libertà dell’essere umano e non alienazione. E come Erasmo, Bobbio non crede alla contrapposizione tra l’uomo virtuoso e l’uomo del progresso, l’uomo economico. Nella riflessione sul valore attuale della virtù non non è disposto pertanto di sviluppare una contrapposizione tra virtù e i principi etici, o regole o un’antitesi antitesi tra modernità e tradizione.

Infatti, come sostiene Bobbio, non è evidente che l’etica della virtù si sia posta in contrapposizione di fronte all’affermazione dell’etica delle regole. Infatti, anche nell’etica antica il tema della virtù e quello delle leggi sono continuamente intrecciati tanto che, per Aristotele, parte della virtù della giustizia consiste nell’abitudine a obbedire alle leggi.

Secondo Bobbio la contrapposizione tra l’etica della virtù e l’etica del dovere, “come se una escludesse l’altra”, dipende da un errore di prospettiva: infatti queste due morali rappresentano due punti di vista diversi ma non contrapposti, fatto di cui, tanto più oggi, a fronte dell’evoluzione della tecnica, “è più utile e ragionevole cominciare a rendersi conto”. Entrambe le prospettive “hanno per oggetto l’azione buona, intesa come azione che ha per motivo la ricerca e per fine il conseguimento del Bene. Con questa differenza: che la prima la descrive, la indica, la propone come esempio; la seconda la prescrive come comportamento che si deve tenere, come dovere.”3 Quindi sia la virtù che il dovere entrano in gioco nella realizzazione delle motivazioni e e negli atti che che portano l’essere umano a ricercare il conseguimento del bene. La virtù e il dovere si presentano, in un costante equilibrio: la virtù sotto la veste di esempio descrittivo, volto più alla conoscenza ed alla acquisizione interiore; acquisizione che diventa valore e quindi prescrizione, dovere per il comportamento. Appare quindi chiaro, dice Bobbio, che la virtù non si contrappone al dovere, e che entrambi possono concorrere alla realizzazione del bene.

Nel rapporto tra motivazione, attribuzione di valore, quindi virtù, e agire sociale, quindi dovere, finalizzati al bene, si collocano le “virtù sociali”. La mitezza è in tal senso una virtù sociale. La virtù che sta al centro e che è misura delle relazioni con i nostri simili. Secondo Aristotele, la mitezza è “disposizione buona rivolta agli altri”.
In quanto tale è somigliante ad altre virtù sociali, come, ad esempio la giustizia; e si distingue da quelle che sono considerate virtù individuali: il coraggio, la temperanza, che si presentano innanzitutto come “disposizioni buone soltanto nei riguardi di sé stesso”. Anche se, come virtù, quelle individuali costituiscono il presidio della libertà: sono le virtù che organizzano la resistenza contro ogni minaccia alla libertà e all’autonomia e indipendenza morale e intellettuale. In senso liberale, sarebbe difficile trovare il confine tra “virtù sociali” e “virtù individuali”. La distinzione pertanto non costituisce una vera dicotomia, ma si tratta di un rapporto complementare in cui, ci sembra si possa dire che, Bobbio, consideri in modo preminente l’aspetto di “leva” che alcune virtù hanno nella costruzione delle regole sociali in modo positivo; laddove, si potrebbe dire, che le virtù individuali emergono in modo “negativo”, in senso di protezione e di equilibrio del sistema tra sociale e individuale; e quindi, per estensione, tra l’uguaglianza come principio sociale e la libertà come ricerca individuale.


La mitezza non è da confondere con la docilità, caratteristica più attinente al comportamento di chi non si sdegna, e coglie l'ingiustizia come una fatalità; una disposizione d’animo che non ha bisogno degli altri per manifestarsi. La docilità come la mansuetudine è passiva, l’uomo mansueto non si sdegna, ed ha una consapevole accettazione del male quotidiano. Il contrario del mite. La mitezza, infatti, è attiva, si indigna di fronte al male e all’ingiustizia. Non fugge ma reagisce e la sua azione è volta ad aiutare l’altro a vincere il male. La mitezza pertanto può essere considerata come “una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite – dice Bobbio – è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé.”4 La mitezza va oltre la tolleranza perché cerca il l’altro, il diverso da sé. La mitezza si compie infatti nella realizzazione del bene dell’altro, ed è rispetto dell’altro e, in questo manifestarsi verso il diverso è l’unica suprema “potenza” che consiste “nel lasciar essere l’altro quello che è”.
Anche se la mitezza è confinante con il territorio della tolleranza rispetto alle idee e il modo di vivere altrui, il mite va oltre la stessa tolleranza. Infatti, la tolleranza sussiste su di una reciproca obbligazione degli uni verso gli altri altrimenti, se viene meno la reciprocità, si concretizza uno stato di sopraffazione. Invece “il mite non chiede, non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata.”5

Quindi la mitezza non è mai un atteggiamento verso sé stessi; ma atteggiamento verso gli altri che, proprio per ciò, non cade mai né nella sopravvalutazione né nella sottovalutazione di sé stessi. Per questo non va confusa con la modestia, che deriva da una mancanza di stima per sé stessi. Il mite non è modesto.

Inoltre, la mitezza non va scambiata per remissività. Il remissivo è colui che rinuncia per debolezza, per paura, per rassegnazione. La remissività non si concilia con le virtù della libertà. Il mite non è remissivo né cedevole, quindi non accetta e non si rassegna. Tuttavia, nelle cose umane, il mite non serba rancore né sentimenti di vendetta, non accetta di imporre ai fatti umani la logica della gara tra chi vince e chi perde e sa che per essere in pace con sé stessi bisogna prima essere in pace con gli altri.
Il mite “attraversa il fuoco senza bruciarsi – dice ancora Bobbio –, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità.”6 In tal senso possiamo dire che la mitezza sta al centro delle virtù cardinali ed è misura di esse e può essere assimilata a ciò che le dottrine orientali chiamano compassione ed empatia.

La mitezza non va poi confusa con l’umiltà, intesa come remissività. In quanto questa può essere considerata una espressione della propria debolezza e impotenza che contraddistingue, come sostiene Spinoza, un passaggio verso “uno stato di minore perfezione”, una perdita di sé, nel momento in cui può condurre ad uno stato di tristezza (o depressione).
Il mite, al contrario è una persona serena, ilare, soddisfatta di se stessa, felice, in quanto intimamente convinta della propria aspirazione ad una migliore condizione, “una condizione che egli prefigura nella sua azione quotidiana, esercitando appunto la virtù della mitezza” insieme con le altre virtù. L’umile può essere un testimone nobile, ma senza speranza, di questo mondo, mentre “Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore” 7.

La mitezza ha come virtù complementare la semplicità. La semplicità si può pensare come una disposizione “unita alla limpidità, alla chiarezza, al rifiuto della simulazione… una predisposizione della mitezza. Difficilmente l’uomo complicato può essere disposto alla mitezza: vede dappertutto intrighi e trame e insidie, e quindi tanto è diffidente verso gli altri quanto insicuro verso sé stesso.”8 Il mite ha una concezione erasmiana dell’altro e dei rapporti umani, una concezione opposta alla visione dell’uomo presente in Hobbes o Machiavelli. Il mite è figlio di quell’Illuminismo che vede l’umanità sempre come fine e mai come un mezzo.

Bobbio considera la mitezza come prefigurazione della città ideale, è la mitezza che rende il mondo migliore, in quanto essa prefigura e fa pensare che “la città ideale non sia quella fantasticata e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale.”9

La scelta della mitezza è per Norberto Bobbio una scelta “metafisica” che affonda cioè le radici in una concezione del mondo, ed è una scelta storica da considerare “come una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere.” Una scelta oggi tanto più impellente a fronte di una politica e che sta scadendo sempre più verso il conflitto e la reciproca delegittimazione. Un valore impolitico quale presupposto per ogni relazione politica fondata sul rispetto reciproco e delle regole che presiedono alla democrazia liberale.

Nella sua universalità e nella sua centralità rispetto alle regole della che sottostanno alla civiltà liberale, la mitezza è da considerare come una virtù non politica in quanto esercizio della non violenza, in quanto tale è rifiuto della politica (e diciamo, nel contempo, con l’occhio rivolto alla fenomenologia politica del neo populismo italico, esercizio di quella ironia impolitica che, secondo Thomas Mann, si contrappone al radicalismo, mentre rigetta il ridicolo come espressione violenta del dileggio).
Quindi “la mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù. In un’eccezione forte della politica, nell’eccezione machiavellica o, per essere aggiornati, schmittiana, la mitezza è addirittura l’altra faccia della politica”.10
È fondamentale, sostiene Bobbio, per la filosofia politica, stabilire i limiti tra il politico e il non-politico. È mostruosa l’idea che tutto, nelle relazioni umane, possa debba essere ricondotto soltanto alla politica e definire l’essere umano soltanto in misura di questa qualità. Nella nota di Bobbio nella definizione della mitezza emerge chiaramente una concezione chiara della politica quale campo di quelle virtù machiavelliche e hobbesiane, ammirate da Hegel, contrarie a quelle che Erasmo considerava invece le virtù del principe cristiano che aprono il campo della politica oltre gli ambiti che riguardano il potere e i modi per preservarlo ponendo come obiettivo stesso della politica il perseguimento del Bene, e il bene comune quando assume un senso politico. Quel bene che realizza la vocazione umana, nel senso del principio aristotelico del perseguimento del bene inteso come soddisfazione nella realizzazione della proprie abilità e nella tendenza a migliorare sempre più le capacità. Il bene che si impone attraverso la “stima di sé” e che non può realizzarsi senza il rispetto degli altri. Rispetto di sé, senso del proprio valore nella realizzazione del proprio piano di vita ragionevole.11

La concezione dei limiti della politica, del conflitto politico, forma il nucleo dell’argomento principale per cui Dahrendorf ammettere di diritto Bobbio tra gli erasmiani. Infatti, quelle che, in questo caso, sono considerate virtù impolitiche diventano immagini di un mondo che non conosce né vinti né vincitori, almeno come principio ispiratore delle azioni politiche. Si tratta di un mondo dove domina la libertà e la dignità umana, e che, nell’ambito della vita politica, ha imparato a tenere nella dovuta considerazione tutte le virtù liberali. Quelle “virtù della libertà” che predominano nell’idea di politica di personaggi come Raymond Aron, Karl Popper, Isaiah Berlin e Norberto Bobbio, appunto personalità che ci indicano con la loro opera e l’impegno come intellettuali esempi di cosa possa 
essere considerata la mitezza. Dahrendorf iscrive Bobbio tra gli intellettuali che, nel ventesimo secolo, si opposero alle “tentazioni” totalitarie e autoritarie. Ciò nonostante il fatto che, a differenza di tanti altri, il regime in italiano abbia garantito una cattedra che permise a Bobbio oltre un decennio di vita accademica fino all’arresto del 1943.
Opporsi alle tentazioni totalitarie vuol dire opporsi al totalitarismo in ogni sua forma e manifestazione e avversarlo nelle scelte, nei comportamenti e sul piano morale oltre che, per chi ne ha gli strumenti, politicamente.  Ma il fatto di opporsi politicamente al totalitarismo, non costituisce in sé elemento sufficiente per appartenere al circolo degli erasmiani. Infatti il XX secolo ha visto altri intellettuali opposti al totalitarismo nei vari paesi europei, che ne hanno anche subito le più estreme conseguenze, ma ciò nonostante questi non appartengono al club degli erasmiani di Dahrendorf in quanto, come oppositori politici, non non sono stati oppositori in senso universalmente morale ad ogni forma di autoritarismo.
Infatti, gli appartenenti al club sono rappresentanti di una opposizione morale, prima ancora che etica e politica; una opposizione radicale, profonda, che va alla radice morale delle relazioni umane, perché ritiene che queste non possono che fondarsi sulla libertà e sul riconoscimento dell’altro. Quindi al club appartengono gli intellettuali che moralmente hanno aderito ad una idea opposta ad ogni forma di totalitarismo e di autoritarismo tout court., in quanto nemico o ostacolo della  dignità e della libertà umana. 12

    1 Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2010 (prima edizione 1998)
    2 Ibidem p. 31.
    3 Ibidem p. 32.
    4 Ibidem, p. 35.
    5 Ibidem, p. 43.
    6 Ibidem, p. 41.
    7 Ibidem, p. 42.
    8 Ibidem , p. 44.
    9 Ibidem, p. 45.
    10 Ibidem, p. 39.
    11 vedi J. Rawls, Teoria Terza parte
    12 Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo.

    Perché non possiamo non dirci liberali. Il liberalismo critico di Raymond Aron.

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